venerdì 7 febbraio 2020

15
Omicidio


Il portacenere che era sul tavolo sembrava contenere cenere e mozziconi; dunque sembrava un contenitore; di fatto, non lo era del tutto. Di primo acchito, sembrava essere biancastro e duretto; di certo, era rotondo. Una luce, proveniente dal lampadario e che a lui giungeva giallognola, proiettava accanto a esso una porzione d’ombra entro la quale il tavolo si univa illusoriamente a ciò che lo sovrastava. A prima vista, qualche altra cosa suscitava l’interesse di Augusto Pandossa: il portacenere era sbreccato; uno dei mozziconi riportava sul filtro una macchia rossastra.

Il professore aveva appena fumato una sigaretta e l’aveva spenta esercitando una certa pressione sul mozzicone con l’indice della mano destra, bruciacchiandoselo. Non aveva avvertito alcun dolore fisico, almeno in apparenza. Avrebbe voluto accenderne un’altra, ma aveva resistito alla tentazione. Era inquieto, tanto da cominciare a picchiettare il bordo del portacenere, che, di conseguenza, sobbalzava. Un po’ di cenere s’era sparsa sul tavolo, nella regione d’ombra.

Un suono grave si propagò ritmicamente nella stanza. L’uomo si fece invadere dai ricordi; gli sovvenne, in particolare, la figura femminile della moglie, la quale, verosimilmente, era sempre assieme a lui.

Portacenere, contenuto del portacenere, macchia rossastra, ombra, suono grave, figura femminile e lo stesso Augusto, adesso, costituivano un corpo unico.

<<Come non è possibile stabilire con certezza dove si trova l’elettrone in un determinato istante all’interno dell’atomo, così non si può dire di me, se non con una certa approssimazione. Sono l’opposto di me stesso, cioè un concetto, qualcosa di astratto, appartengo al mondo del pensiero. Qualche giorno fa, mi ritrovai perfino a interrogarmi sulla virtù. Dopo una lunga ed estenuante riunione con alcuni colleghi – intellettuali brillanti, nulla da eccepire –, andammo in cerca di un bar per un caffè che ci riscattasse da tre ore di letteratura nevrotica, accademica, noiosa, lacerante e così via. Appena fuori dell’edificio, facendo due passi, alla mia sinistra vidi l’insegna luminosa di un bar. Cambiai immediatamente direzione anche perché avevo pure bisogno di alleggerire in fretta la vescica e non avevo voluto lasciare in dono all’accademia i miei liquidi. Sono fatto male. Di colpo, fui strattonato dall’illustre e affettato collega, il quale mi mise in guardia dal mettere piede dentro quel bar, avvertendomi che si trattava d’un ricettacolo di gentaglia, d’un ambiente malfamato; il che mi convinse dell’importanza che quel luogo avrebbe avuto per la mia esistenza e sentii un forte disprezzo per lui. Volevo picchiarlo selvaggiamente, ma non lo feci. Perché? Sarebbe stato un gesto eroico. Invece, sono stato un vigliacco. Oppure sono stato in grado di mantenere un buon equilibrio tra il bene ed il male?>>

L’unico vero e ineliminabile vizio dell’uomo sta nel mistero che egli crea attorno a sé… non solo come alibi per la propria inadempienza, non per tutte quelle volte in cui ha chiuso un libro dopo poche pagine di lettura non sentendosi all’altezza del compito, non per tutte quelle volte in cui ha sprecato il denaro in cose di poco conto, non per tutte le volte in cui ha abbandonato il proprio lavoro o le persone care convincendosi d’essere l’unico giusto per cui Dio non avrebbe dovuto distruggere Sodoma e Gomorra, non per tutte le volte in cui è stato mefistofelicamente capace di elaborare delle scuse, non per tutto questo… ma per ricordare a sé stesso di avere sempre una possibilità, un’area entro la quale ad Io e Sono, messi in sequenza, può seguire qualcosa, un aggettivo o un sostantivo che diano senso sociale alla perenne inadempienza. Allora, egli salta sempre dalla stessa posizione, su una specie di tappetino rimbalzante, sforzandosi di arrivare il più in alto possibile, ma, ogni volta in cui tocca terra, finge di non accorgersi di non essersi spostato neppure di un centimetro. Se ai bambini è concessa la ripetitività del gioco e del salto in vista d’una memoria da costruire, agli adulti, forti dell’esperienza, spetta il compito della previsione, laddove essi, invece, sperano di potersi fermare a mezz’aria. Il mistero consiste in questo gioco impegnativo, faticoso e snervante, praticato da tutti, indistintamente. La tregua e il riposo sono ammessi solo al buio, un buio talmente impenetrabile e imperscrutabile che neppure gli artefici del mistero sanno gestirlo soprattutto perché non vogliono accettare che il buio non è altro che un equilibrio dinamico, una variante della relatività ludico-deviante, una percezione diversa dell’energia del salto.

Pandossa era un giocatore sapiente. A differenza di tanti altri, faceva i conti con la propria memoria, soprattutto quando si trovava nella fase di massimo slancio. Ad Io e Sono, per Augusto, seguiva Beatrice. “Io sono Beatrice” ripeteva tra sé. Dopo quell’atto di suprema e violenta identificazione, egli aveva speso gli ultimi vent’anni a denunciare l’impossibile quiete dell’uomo, la propria anzitutto.

Alle prime luci dell’alba, gli andò incontro Eleonora, appena svegliata dal parlottio del padre. Gli gli si sedette sulle gambe. I due si fissarono malinconici, guidati da un presentimento arcano, oppressi dall’angoscia.

<<Eleonora, figlia mia, tu hai il diritto di conoscere la verità.>> enunciò grave e solenne Augusto.

Eleonora, vedendo piangere il padre, non ebbe la forza per proferire alcuna sillaba.

<<Io non sono un letterato, uno scrittore; io non sono un professore. Se è vero che un uomo è rappresentato dalla propria opera, la maggiore tra le mie opere è stato l’omicidio. Io sono un omicida, un uxoricida. Io ho ucciso tua madre. È stato un delitto perfetto, premeditato… Sapevo che amava un altro uomo, un uomo che non valeva niente. Forse, avrei dovuto uccidere lui. Io ho tentato di resistere, credimi! Per anni, ho voluto convincermi di avere limiti morali… e, tuttora, penso che sia ingiusto giudicare male una persona che non può né vuole amarti… poi, ho saputo che… non sei mia figlia. Fa’ di me quello che vuoi! Ammazzami! Fa’ che io paghi per il mio reato! Sappi solo che t’ho amata come una figlia, d’un amore puro ed incondizionato e…continuerò a farlo!>>    

***

Non c’è amore se non nel superamento sanguinoso, quasi inumano e, di certo, offensivo della morale comune, nella violazione delle proprie speranze, nella rinuncia a tutto ciò per cui ci si è battuti idealmente e fisicamente: l’amore è anzitutto la suprema forma d’incoerenza; il piacere stesso, l’eros per intenderci – ne subisce, anch’esso e inspiegabilmente, il contraccolpo, giacché, sulle prime, si è costretti da forze ignote a contemplare chi ci sta innanzi. Oltre la contemplazione, si apre la voragine dell’incompletezza, che iniziamo inconsapevolmente a incarnare: eravamo soli e disperavamo d’amare; adesso, amiamo e sentiamo come lacerante l’incompletezza. Perché? Perché – lo si ammetta o meno –, di respiro in respiro, non siamo più autosufficienti: perfino una goccia di sudore che ci riga il viso o lo stesso morso della fame o la scelta del colore d’una maglia diventano prefigurazioni della persona amata e assente. Si tratta di qualcosa di simile a ciò che per Kierkegaard si materializzava nello scegliere di non scegliere: Dio come abisso della paradossale libertà per il filosofo; in generale, un compagno di disagi per l’uomo. Felicità, fedeltà, lealtà e parecchie altre astrazioni inculcateci, fin da quando eravamo bambini, s’impongono presto quali vaccini obbligatori, ma pochi, forse eroi pronti al rogo, ammettono e riconoscono la prova, unico vero momento dell’iniziazione amorosa. La quiete del genere umano e, in particolare, la garanzia della sua conservazione sono sofisticamente rappresentate in questo: quest’amore che ci scuote e ci spossa è pressoché inesistente, laddove le quasi totale natura delle relazioni è fatta di accomodamenti, ripieghi. Allo stesso modo in cui non si può amare Dio e, nello stesso tempo, non essere disposti a finire su qualche croce, così non si può pensare d’amare qualcuno, se non si è disposti a morire un po’.