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Fastidio
Le sue palpebre avevano frequenti
e molesti scatti nervosi. Scrollando le spalle e rassegnandosi a sopportare
l’inconveniente, Augusto Pandossa passeggiava lungo i corridoi del
supermercato, le mani intrecciate dietro la schiena, come fosse sotto il loggiato
d’una città barocca mai visitata. Di tanto in tanto, alzava lo sguardo in
direzione dei neon che inondavano di luce bianca e impersonale la mercanzia e
sporgeva in avanti le labbra con tale sforzo muscolare che la bocca sembrava
torcerglisi in manierismi schizoidi. Tornando a osservare i prodotti, pur senza
sceglierne alcuno o valutarne i prezzi, grugniva con palese inquietudine,
lasciandosi andare a commenti alquanto strambi e che attiravano l’attenzione di
chi gli transitava allato, ma confermando a sé stesso che sarebbe stato
necessario fare la spesa.
La prima mezz’ora, infatti, era
trascorsa nello spiegamento di questi balzani giochi di ruolo e della
personalità.
A un certo punto, il professore,
con un’ostentazione di calma che non corrispondeva affatto al suo reale stato
d’animo, s’appressò ai reparti di pretto interesse femminile.
Di lì a pochi giorni, avrebbe
ricevuto la figlia, la quale, oberata di lavoro, lo aveva pregato di
approvvigionarla delle risorse necessarie alla permanenza. La prima fatica
consisteva nell’acquisto degli assorbenti, sebbene Eleonora gli avesse
impartito un’eccellente lezione in merito. Senza perdersi d’animo, andò alla
ricerca d’un carrellino e riguadagnò la posizione d’attacco. Studiò il settore
grattandosi il mento e s’avvide, con un colpo d’occhio, d’essere accerchiato da
donne d’ogni genere e specie con al seguito chiassosi bambini. Quest’ultima
visione gli provocò una tale negativa suggestione da alterarne i tratti
somatici in amorfi e ridicoli piegamenti delle labbra, degli zigomi e degli
occhi. Facendosi violenza, in una sorta di grottesco training autogeno, si
chinò e allungò la mano su una scatola di colore viola con su scritto “Provami
Nuova Linea Anatomica Assorbenti con ali”.
La afferrò, la fece ruotare davanti
al proprio naso con un misurato lavoro di polso e, sempre più perplesso, con un
sorrisetto amaro che gli attraversò rapidamente il viso come un’onda
d’incalcolabile misurazione, la scaraventò nel carrello. Fece una pausa
insignificante. Poi, più risoluto che mai, ne prese altre due confezioni,
nell’assurda convinzione che una fosse insufficiente. Tre, a suo modo di
vedere, sarebbero bastate appena. Procedette, quindi, ad analizzare la nota
della spesa, ma lo fece con marcati sbuffi d’indignazione. Certe operazioni lo
imbarazzavano e, per l’appunto, lo indignavano, anche se non avrebbe mai
opposto un diniego alla richiesta della figlia.
La seconda fatica non era meno
preoccupante della prima, richiedendo delle competenze tecniche: occorreva
trovare una crema per il corpo alla vaniglia e alla mirra, ma occorreva anche
mantenere i nervi saldi anche perché la nuova ricerca implicava degli
spostamenti decisivi e la capacità di farsi largo tra le giovani donne.
L’approccio fu disastroso.
Le scaffalature gli parvero
anonime, le creme erano troppo numerose perché se ne potesse selezionare quella
adeguata ai bisogni di Eleonora, la quale, tra le altre cose, non si sarebbe
accontentata d’una scelta di ripiego. Al povero Pandossa toccò, pertanto,
andare su e giù per i corridoi, senza riuscire a cavare il cosiddetto ragno dal
buco. La turbolenza dei bambini che gli schiamazzavano attorno, la voce
metallica della filodiffusione che promuoveva le offerte, il chiacchiericcio
delle famigliole e, più in generale, l’intero corredo umano del supermercato lo
confondevano oltremisura. Si chiese più volte perché mai la figlia lo avesse
condannato a tale supplizio.
A poco a poco, tra una smorfia
d’insofferenza ed un sorriso di rassegnazione, si sciolse dai pregiudizi di
genere e decise di chiedere aiuto a una delle esperte clienti che, in quel
mondo, si destreggiavano con piroette da acrobata. Si rivolse, a caso, alla
prima donna che gli capitò a tiro. Era un’abbondante signora bruna sui
quarant’anni che si faceva notare per la formosità dei seni e delle natiche,
che sembravano lottare con la resistenza dei tessuti per uscire allo scoperto.
<<Signora, mi perdoni per
la prevaricazione! Saprebbe dirmi dove trovare una crema per il corpo alla
vaniglia e alla mirra?>>.
La signora guardò subito il
professore con una certa ambiguità, propria di chi avrebbe voluto curiosare
nelle ragioni di quella richiesta con una bella serie di domande inopportune,
anziché dare il suggerimento, tanto che non rispose con prontezza. Tenendo a
freno la linguaccia, disse: <<Lei è fortunato. Io uso questa crema da
parecchi anni e le assicuro che si tratta di un prodotto eccellente. Idrata la
pelle, la profuma, la rende morbida al tatto. È un’ottima scelta. Se poi le
interessa il consiglio di una che se ne intende, lei non deve fare altro che
applicare la crema dopo una bella doccia calda. L’effetto è dieci volte
superiore. Comunque, io sono Maria. Mi scusi, se sono indiscreta, ma lei ha un
volto noto. Ecco! Lei è Pandossa, il professor Pandossa, mi perdoni! Il grande
scrittore. L’editorialista.>>.
Augusto Pandossa era sul punto di
sbottare in una risata grassa e sprezzante, più che altro la covava, ma il
senso di istupidimento era tale da impedire qualsiasi altra reazione.
<<Signora>> le disse
<<vorrei solo sapere dove si trova questa eccellente crema.>>.
La donna, la cui ambiguità s’era
presto trasformata in malizia e sfrontata civetteria, s’affrettò a indicare la
collocazione della crema. Pandossa, per contro, non rinunciò a predare la
vittima: <<Se mi è concesso, signora, ha letto qualche mio
lavoro?>>.
<<No!>> rispose
seccamente la signora. <<Il lettore della famiglia è mio marito. Io mi
ricordo di lei in un’intervista in tv di parecchi anni fa.>>.
<<Bene!>> sentenziò
Pandossa, prima di piantare in asso l’interlocutrice. <<Allora, non esiti
a salutare per me suo marito!>>.
Congedandosi energicamente dalla
donna, il professore tese tutti i propri sforzi ai successivi acquisti, tra cui
spiccava in ordine d’importanza una confezione di salviettine struccanti. Altra
bella fatica. Fu così che si rimise di buona lena a ispezionare le scansie del
reparto. Trovò subito ogni genere di salviettine, ma di quelle struccanti non
c’era traccia. Si fermò, stese bene davanti a sé il foglio della nota ormai
stropicciato, fece scorrere l’indice della mano destra sotto i titoletti e si
chiese se fosse possibile fare a meno di qualcosa. Frattanto, si rese conto,
con la coda dell’occhio, che una donna, da un po’, senza infingimenti né
particolari stratagemmi, sbirciava il suo pezzo di carta. Egli, con la solita
pronta comicità, glielo mostrò interamente, così da evitarle lo sforzo di
tendere il collo. Ella, con determinata sfacciataggine, si tolse gli occhiali,
raccolse in una crocchia i lunghi capelli castani con entrambe le mani e si
tuffò nell’esame dell’intero elenco. Ultimata la lettura, prese Augusto
Pandossa sottobraccio e lo condusse direttamente al prodotto. Al professore
piacque ogni momento di quella scenetta da commedia dell’assurdo. Tra le altre
cose, aveva riconosciuto quasi immediatamente la protagonista della densa ed
estemporanea pièce. Era la madre della ragazza che, sei mesi prima, s’era tolta
la vita nell’aula magna dell’università, sul finire della sua relazione al
convegno.
***
Accade talora che un’immagine
occupi un punto fisso intorno a noi: è un corpo seminudo e dai contorni
sfuggenti oppure qualcosa che somigli a un sentiero di montagna. D’un tratto,
volgiamo lo sguardo a riconoscerne sporgenze o profondità, secondo che riusciamo
ad approssimarci all’uno o all’altro dei due ritratti. Ne siamo parte fin
dall’inizio, in qualche modo, ma non sappiamo se questa compresenza sia
rischiosa, fiabesca, illusoria o, semplicemente, inutile. Ciò che realmente ci
è apparso, di fatto, è un bisogno, inconfessato e vivido, d’incontrare chi, non
a caso e non per errore, ha lasciato segni sul ciglio della strada erbosa,
mostrando di sé il biancore sfocato delle proprie spalle, senza indugiare lungo
il cammino in soste d’ozio e falsi contrattempi.
La speranza spesso è letale
perché da essa ci facciamo precedere e, di conseguenza, adombrare. Siamo scalzi
e, forse, anche in mutande; la visione ci ha dominati durante un pomeriggio
agostano qualunque; fingiamo d’essere impreparati e cantiamo inni all’attesa;
questo tuttavia non c’impedisce di correre a colmare le distanze.
Quando finisce il lirismo delle
provocazioni, delle suggestioni e dei richiami, le parole si fanno voluttuose e
le nostre gambe s’alternano in falcate ampie, irriconoscibili e talentuose. Se
il dire non è fare, ci ammaliamo di virtù anodine ed equivoche.
Più oltre, cioè in direzione
della lontananza, all’interno d’una baita immersa nella boscaglia, in cui non
abbiamo più un nome e neppure una memoria gloriosa e limpida, qualcuno ci aspetta.
Disteso sul giaciglio di fortuna improvvisato in tempi ignoti da amanti
avventurosi, è ormai privo d’ogni veste, ha gli occhi chiusi e i pugni serrati,
quasi volesse stringere a sé l’origine d’un orgasmo. Il nostro ingresso è
maldestro; spalanchiamo la porta con furore e facciamo fatica a frenare il
lungo e intenso slancio che ci ha condotti fin lì. Per la seconda volta, ci
fermiamo: in parte, rifiatiamo; in parte, siamo esterrefatti e increduli,
inerti e molli. Se ci avanziamo, ciò avviene in modo involontario, cosicché
siamo salvi e, poco dopo, siamo stretti all’altro dall’intreccio di due piedi,
che cingono la nostra schiena. Un bacio, dolcissimo e, al tempo stesso,
terribile ci rende sovrumani.
L’eros, quello autentico, è
invisibile e innominabile.
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