venerdì 20 dicembre 2019


8
Fastidio


Le sue palpebre avevano frequenti e molesti scatti nervosi. Scrollando le spalle e rassegnandosi a sopportare l’inconveniente, Augusto Pandossa passeggiava lungo i corridoi del supermercato, le mani intrecciate dietro la schiena, come fosse sotto il loggiato d’una città barocca mai visitata. Di tanto in tanto, alzava lo sguardo in direzione dei neon che inondavano di luce bianca e impersonale la mercanzia e sporgeva in avanti le labbra con tale sforzo muscolare che la bocca sembrava torcerglisi in manierismi schizoidi. Tornando a osservare i prodotti, pur senza sceglierne alcuno o valutarne i prezzi, grugniva con palese inquietudine, lasciandosi andare a commenti alquanto strambi e che attiravano l’attenzione di chi gli transitava allato, ma confermando a sé stesso che sarebbe stato necessario fare la spesa.

La prima mezz’ora, infatti, era trascorsa nello spiegamento di questi balzani giochi di ruolo e della personalità.

A un certo punto, il professore, con un’ostentazione di calma che non corrispondeva affatto al suo reale stato d’animo, s’appressò ai reparti di pretto interesse femminile.

Di lì a pochi giorni, avrebbe ricevuto la figlia, la quale, oberata di lavoro, lo aveva pregato di approvvigionarla delle risorse necessarie alla permanenza. La prima fatica consisteva nell’acquisto degli assorbenti, sebbene Eleonora gli avesse impartito un’eccellente lezione in merito. Senza perdersi d’animo, andò alla ricerca d’un carrellino e riguadagnò la posizione d’attacco. Studiò il settore grattandosi il mento e s’avvide, con un colpo d’occhio, d’essere accerchiato da donne d’ogni genere e specie con al seguito chiassosi bambini. Quest’ultima visione gli provocò una tale negativa suggestione da alterarne i tratti somatici in amorfi e ridicoli piegamenti delle labbra, degli zigomi e degli occhi. Facendosi violenza, in una sorta di grottesco training autogeno, si chinò e allungò la mano su una scatola di colore viola con su scritto “Provami Nuova Linea Anatomica Assorbenti con ali”.

La afferrò, la fece ruotare davanti al proprio naso con un misurato lavoro di polso e, sempre più perplesso, con un sorrisetto amaro che gli attraversò rapidamente il viso come un’onda d’incalcolabile misurazione, la scaraventò nel carrello. Fece una pausa insignificante. Poi, più risoluto che mai, ne prese altre due confezioni, nell’assurda convinzione che una fosse insufficiente. Tre, a suo modo di vedere, sarebbero bastate appena. Procedette, quindi, ad analizzare la nota della spesa, ma lo fece con marcati sbuffi d’indignazione. Certe operazioni lo imbarazzavano e, per l’appunto, lo indignavano, anche se non avrebbe mai opposto un diniego alla richiesta della figlia.

La seconda fatica non era meno preoccupante della prima, richiedendo delle competenze tecniche: occorreva trovare una crema per il corpo alla vaniglia e alla mirra, ma occorreva anche mantenere i nervi saldi anche perché la nuova ricerca implicava degli spostamenti decisivi e la capacità di farsi largo tra le giovani donne.

L’approccio fu disastroso.

Le scaffalature gli parvero anonime, le creme erano troppo numerose perché se ne potesse selezionare quella adeguata ai bisogni di Eleonora, la quale, tra le altre cose, non si sarebbe accontentata d’una scelta di ripiego. Al povero Pandossa toccò, pertanto, andare su e giù per i corridoi, senza riuscire a cavare il cosiddetto ragno dal buco. La turbolenza dei bambini che gli schiamazzavano attorno, la voce metallica della filodiffusione che promuoveva le offerte, il chiacchiericcio delle famigliole e, più in generale, l’intero corredo umano del supermercato lo confondevano oltremisura. Si chiese più volte perché mai la figlia lo avesse condannato a tale supplizio.

A poco a poco, tra una smorfia d’insofferenza ed un sorriso di rassegnazione, si sciolse dai pregiudizi di genere e decise di chiedere aiuto a una delle esperte clienti che, in quel mondo, si destreggiavano con piroette da acrobata. Si rivolse, a caso, alla prima donna che gli capitò a tiro. Era un’abbondante signora bruna sui quarant’anni che si faceva notare per la formosità dei seni e delle natiche, che sembravano lottare con la resistenza dei tessuti per uscire allo scoperto.

<<Signora, mi perdoni per la prevaricazione! Saprebbe dirmi dove trovare una crema per il corpo alla vaniglia e alla mirra?>>.

La signora guardò subito il professore con una certa ambiguità, propria di chi avrebbe voluto curiosare nelle ragioni di quella richiesta con una bella serie di domande inopportune, anziché dare il suggerimento, tanto che non rispose con prontezza. Tenendo a freno la linguaccia, disse: <<Lei è fortunato. Io uso questa crema da parecchi anni e le assicuro che si tratta di un prodotto eccellente. Idrata la pelle, la profuma, la rende morbida al tatto. È un’ottima scelta. Se poi le interessa il consiglio di una che se ne intende, lei non deve fare altro che applicare la crema dopo una bella doccia calda. L’effetto è dieci volte superiore. Comunque, io sono Maria. Mi scusi, se sono indiscreta, ma lei ha un volto noto. Ecco! Lei è Pandossa, il professor Pandossa, mi perdoni! Il grande scrittore. L’editorialista.>>.

Augusto Pandossa era sul punto di sbottare in una risata grassa e sprezzante, più che altro la covava, ma il senso di istupidimento era tale da impedire qualsiasi altra reazione.

<<Signora>> le disse <<vorrei solo sapere dove si trova questa eccellente crema.>>.

La donna, la cui ambiguità s’era presto trasformata in malizia e sfrontata civetteria, s’affrettò a indicare la collocazione della crema. Pandossa, per contro, non rinunciò a predare la vittima: <<Se mi è concesso, signora, ha letto qualche mio lavoro?>>.
<<No!>> rispose seccamente la signora. <<Il lettore della famiglia è mio marito. Io mi ricordo di lei in un’intervista in tv di parecchi anni fa.>>.
<<Bene!>> sentenziò Pandossa, prima di piantare in asso l’interlocutrice. <<Allora, non esiti a salutare per me suo marito!>>.

Congedandosi energicamente dalla donna, il professore tese tutti i propri sforzi ai successivi acquisti, tra cui spiccava in ordine d’importanza una confezione di salviettine struccanti. Altra bella fatica. Fu così che si rimise di buona lena a ispezionare le scansie del reparto. Trovò subito ogni genere di salviettine, ma di quelle struccanti non c’era traccia. Si fermò, stese bene davanti a sé il foglio della nota ormai stropicciato, fece scorrere l’indice della mano destra sotto i titoletti e si chiese se fosse possibile fare a meno di qualcosa. Frattanto, si rese conto, con la coda dell’occhio, che una donna, da un po’, senza infingimenti né particolari stratagemmi, sbirciava il suo pezzo di carta. Egli, con la solita pronta comicità, glielo mostrò interamente, così da evitarle lo sforzo di tendere il collo. Ella, con determinata sfacciataggine, si tolse gli occhiali, raccolse in una crocchia i lunghi capelli castani con entrambe le mani e si tuffò nell’esame dell’intero elenco. Ultimata la lettura, prese Augusto Pandossa sottobraccio e lo condusse direttamente al prodotto. Al professore piacque ogni momento di quella scenetta da commedia dell’assurdo. Tra le altre cose, aveva riconosciuto quasi immediatamente la protagonista della densa ed estemporanea pièce. Era la madre della ragazza che, sei mesi prima, s’era tolta la vita nell’aula magna dell’università, sul finire della sua relazione al convegno.

***

Accade talora che un’immagine occupi un punto fisso intorno a noi: è un corpo seminudo e dai contorni sfuggenti oppure qualcosa che somigli a un sentiero di montagna. D’un tratto, volgiamo lo sguardo a riconoscerne sporgenze o profondità, secondo che riusciamo ad approssimarci all’uno o all’altro dei due ritratti. Ne siamo parte fin dall’inizio, in qualche modo, ma non sappiamo se questa compresenza sia rischiosa, fiabesca, illusoria o, semplicemente, inutile. Ciò che realmente ci è apparso, di fatto, è un bisogno, inconfessato e vivido, d’incontrare chi, non a caso e non per errore, ha lasciato segni sul ciglio della strada erbosa, mostrando di sé il biancore sfocato delle proprie spalle, senza indugiare lungo il cammino in soste d’ozio e falsi contrattempi.

La speranza spesso è letale perché da essa ci facciamo precedere e, di conseguenza, adombrare. Siamo scalzi e, forse, anche in mutande; la visione ci ha dominati durante un pomeriggio agostano qualunque; fingiamo d’essere impreparati e cantiamo inni all’attesa; questo tuttavia non c’impedisce di correre a colmare le distanze.

Quando finisce il lirismo delle provocazioni, delle suggestioni e dei richiami, le parole si fanno voluttuose e le nostre gambe s’alternano in falcate ampie, irriconoscibili e talentuose. Se il dire non è fare, ci ammaliamo di virtù anodine ed equivoche.

Più oltre, cioè in direzione della lontananza, all’interno d’una baita immersa nella boscaglia, in cui non abbiamo più un nome e neppure una memoria gloriosa e limpida, qualcuno ci aspetta. Disteso sul giaciglio di fortuna improvvisato in tempi ignoti da amanti avventurosi, è ormai privo d’ogni veste, ha gli occhi chiusi e i pugni serrati, quasi volesse stringere a sé l’origine d’un orgasmo. Il nostro ingresso è maldestro; spalanchiamo la porta con furore e facciamo fatica a frenare il lungo e intenso slancio che ci ha condotti fin lì. Per la seconda volta, ci fermiamo: in parte, rifiatiamo; in parte, siamo esterrefatti e increduli, inerti e molli. Se ci avanziamo, ciò avviene in modo involontario, cosicché siamo salvi e, poco dopo, siamo stretti all’altro dall’intreccio di due piedi, che cingono la nostra schiena. Un bacio, dolcissimo e, al tempo stesso, terribile ci rende sovrumani.

L’eros, quello autentico, è invisibile e innominabile.  

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