venerdì 27 dicembre 2019


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Amplesso


Si diceva che la donna, già affetta da disturbi della personalità e, più volte, ospedalizzata in preda al delirio, dopo il terribile lutto, avesse subito un devastante peggioramento, a causa del quale era stata vista parlare animosamente con la figlia defunta sul posto di lavoro, dal quale successivamente era stata allontanata. Le allucinazioni e i deliri non l’avevano privata del tutto di lucidità e autonomia; anzi, in qualche modo, l’avevano consegnata a uno stato di fiabesca beatitudine in cui ella era persuasa di avere ritrovato la figlia. Di conseguenza, le sue movenze e il suo linguaggio s’erano ricostruiti alla luce di un candore incorruttibile; ogni suo gesto e ogni sua parola erano sospinti da una spontaneità primitiva, una forma di purezza estranea anche al più audace degli avventurieri dell’intelletto, al più sincero dei poeti.

Augusto Pandossa la trovò splendida nella sua carnalità sublimata. Le lasciò fare ogni cosa, senza parlare né tentare d’influenzarne il comportamento. Ne contemplò i tratti fisici fin dal momento in cui ella si fu incurvata sulla nota della spesa, come se fossero i confini d’una terra promessa ormai prossima. Le ciocche di capelli cascanti sulla fronte gli erano parse veli preziosi d’un sipario aperto sui lavori di bulino e cesello d’un ritrattista guidato da Dio. Nel suo volto, per lo più assente, aveva visto una gemma lavorata a rilievo: i grandi occhi verdi, il piccolo naso all’insù, la modesta sporgenza degli zigomi e il turgore delle labbra gli avevano fatto rilevare una divina proporzione.

Quasi mai, negli anni successivi alla morte della moglie, Augusto Pandossa aveva dedicato a una donna tanto riguardo e altrettanto raramente s’era lasciato suggestionare a tal punto da provare immediata eccitazione. Quand’ella lo ebbe preso sottobraccio, egli si sentì deliziosamente torturato da quelle unghie tinte di rosso rubino che, in cerca d’alloggiamento tra il fianco e il rilievo esterno del muscolo dorsale, sembravano ghermire una corporeità fin troppo acquiescente. Ritrovandosi accanto a lei, quale elemento naturale d’una coppia di coniugi, Augusto non aveva potuto fare a meno di smarrirsi nel decolleté improvvisato da un paio di bottoni abbastanza cedevoli della bianca camiciola di seta indossata dalla donna.

Si chiamava Patrizia ed era stata compagna di classe di Augusto fin dai tempi del ginnasio.

L’età non ne aveva affatto alterato la generosa sensualità, che si espandeva virtuosamente in forme vistose ma non troppo, eleganti, scultoree anche nelle imperfezioni causate dal tempo. La gonna nera che scendeva giù da una cintura beige elasticizzata e affibbiata sul basso ventre, giungendo a malapena alle ginocchia, spronava ulteriormente la fantasia erotica del professore, che si tratteneva a fatica dal lasciare che le proprie mani scorressero liberamente sul corpo della donna. E inoltre, l’alienazione patologica dal mondo faceva di Patrizia, agli occhi di Augusto, un personaggio d’una commedia greco-classica che aveva il potere di stare tra gli uomini e gli dei, senza tuttavia doversi commisurare agli uni o agli altri.

Esausto di piacere, Augusto staccò la mano dal braccio di Patrizia e la fece scivolare sul fondo schiena di lei, facendola aderire pienamente alla parte alta dei glutei. Ella si girò di scatto a fissarlo e, stirando verso l’alto la parte sinistra del volto, dall’arcata sopraccigliare all’angolo della bocca, fece una risata altera e di compiacimento il cui suono somigliava a un cenno di vocalizzo d’un soprano. Augusto ne fu rincuorato e insistette a toccarla, rassicurato dalla copertura del cappotto di lei.

<<Vieni da me!>> le disse d’improvviso, non senza un tremito d’ansia.
<<Buon uomo, voi mi affascinate!>> rispose lei in un eloquio drammaticamente disorganizzato. <<Ma l’uomo che m’attende non sa ancora abitare il centro della casa. E anche se so d’essere esistita solo io nell’incognita d’una vita reale o coniugale, resto promessa a quell’uomo. Sono una sacerdotessa del centro della casa.>>.
Bombardato da un’incredibile quantità di stimoli linguistici e figure del significato, Pandossa, che non si sentiva affatto in imbarazzo, sottolineò con arguzia: <<Si dà il caso, mia cara Patrizia, che anch’io abbia il centro della casa e lì t’ho attesa per anni, fin dai tempi del ginnasio.>>.
<<In questo caso la realtà è ideale.>> aggiunse lei con inspiegabile intraprendenza e continuò: << È irremovibile la mia presenza nel mondo uterino dei centri della casa. Lo dico spesso anche a mia figlia: - Non fare molti esami, se poi non esisti come esaminata! -.>>.

Udendo il termine “figlia”, Augusto avvertì una sensazione di scoramento, non riuscendo a conciliare il proprio desiderio con quella maternità smembrata e disperata. Avrebbe rifatto il cammino della seduzione a ritroso, se non fosse stato certo che quel tentativo di conquista era stato animato, fin da principio, da un sentimento unico, quantunque ancora ignoto, ma dirompente, mai provato in tutti gli anni della vedovanza, difficile addirittura ad accettarsi come tale nella banalità di un pomeriggio trascorso al supermercato. Si chiedeva, infatti, con insistenza, se fosse possibile affermare d’amare una donna in quel modo. Egli voleva Patrizia tutta per sé. Non era di certo disposto a dividerla col marito o ad accontentarsi della clandestinità, resa peraltro impossibile dalle condizioni mentali della donna.
<<Il mio intelletto perdeva sangue, quel giorno… La mia bambina aveva deciso di sostenere un altro esame…>> soggiunse lei flebilmente e rabbuiandosi.

Egli le prese il volto tra le mani e le diede un bacio sulla fronte, un bacio che rasserenò Patrizia, la quale appoggiò la testa sulla spalla di lui e si lasciò trascinare in silenzio. Augusto Pandossa toccava il cielo con un dito. Patrizia era la compagna di vita ritrovata: con un violento accesso d’egoismo lodò le virtù della schizofrenia, che considerò uno scudo contro le avversità del mondo esterno. Scosso dalla passione, il professore condusse Patrizia fuori dal supermercato. Ella non protestò, lo seguì affabilmente. Poi, salirono sull’autobus e, in poco meno di mezz’ora, furono sulla soglia dell’appartamento di lui. Egli se ne fece servitore, riservandole ogni premura. La fece accomodare sulla propria poltrona e la invitò ad assumere la posa che giovasse maggiormente al suo benessere. Le chiese se avesse fame e cosa desiderasse, così da prepararle qualcosa di prelibato, ma ella, in risposta, improvvisò uno strano canto il cui ritornello era: “l’uccellino vien cantando”. Egli s’inginocchiò ai suoi piedi e la ascoltò con religiosa devozione.

Alla fine del canto, Augusto le prese le mani e ne contemplò, eccitato e commosso, il rosso rubino delle unghie. Iniziò a baciargliele e ad accarezzarle con la punta della lingua. Con una certa mollezza, ella gliele porse, quasi fossero doni votivi, ma, sporgendosi in avanti, gli fece capire di pretendere un bacio. Si baciarono con delicatezza, lentamente, gustando ogni passaggio di quel contatto. A poco a poco, abbandonarono sul pavimento tutti i vestiti e si accompagnarono vicendevolmente in camera da letto. Patrizia si distese goffamente sul letto, assumendo una posizione perfettamente retta e in linea col piano d’appoggio. Augusto ne rise dolcemente e le si sedette accanto, senza mai smettere di toccarla, senza mai rinunciare a procurarle piacere. Quella donna, si disse, lo avrebbe amato solo nell’accoglierlo dentro di sé. Il suo sguardo, chiaramente infisso al tetto, e la sua immobilità avrebbero potuto trarlo in inganno, ma le vibrazioni del corpo e l’espressione di quel viso rapito dalla letizia e dalla piacevolezza erano limpide testimonianze di attaccamento a quella forma di vita. Le si mise addosso, invitandola a divaricare le gambe. Tentò di catturarne lo sguardo, ma non ottenne successo. Si decise, non senza esitazione, a penetrarla. All’inizio, fu difficile muoversi dentro di lei, senza sentirne le spinte pelviche, cosicché Augusto stentò a goderne. Poco dopo, però, egli fu costretto a fermarsi. Patrizia lo aveva stretto a sé con tale forza e con tale vigore lo esortava a continuare che, sulle prime, Augusto aveva temuto che qualcosa d’ignoto o allucinatorio stesse per portargliela via. Fu un vero e proprio rapporto d’amore, al termine del quale egli si prese cura del suo riposo. La accompagnò in bagno, la lavò e la riportò a letto. Rimboccatele le coperte, le si mise accanto e la vide dormire per tutta la notte.

***

Bisogna ammettere che la maggior parte del nostro desiderio oscilla inelegantemente tra le rinunce e lo spreco, tra le figure della speranza e quelle dell’afflizione; in poche e povere parole, esso è nevrastenico. Lo è, in primo luogo, perché nessuno di noi possiede più lo spirito messianico e la furia dell’eroe cavalleresco a capo dell’avanguardia. In secondo luogo, è così e non può essere altrimenti perché - per dirla con Platone - siamo imitatori delle cose reali: avere un’intuizione su qualcuno che possa farci godere per noi significa iniziare un cammino a ritroso alla ricerca di predicati e nomi protettivi, rifuggendo dagli aggettivi, spesso troppo impertinenti e ambigui. Ciò che per natura è protettivo è, nello stesso tempo, narrabile, si può, per l’appunto, raccontare ad altri e si sa che non c’è alcunché di più confortante e rassicurante quanto il poter dire qualcosa a qualcuno. Non siamo fatti per custodire un segreto, laddove l’intuizione non è altro che un segreto, un che d’inenarrabile, specie quella che ci conduce rapidamente all’eccitazione. 

Noi, di fatto, siamo tutti ‘sposati’, lo siamo anche quando non lo siamo per legge: siamo sposati per genesi e ontologia; è connaturata in noi l’idea di essere bravi e buoni e la presenza, istituzionale o fittizia, di qualcuno che faccia da barriera morale ci aiuta a non morderci troppo spesso le mani per via di tutte interruzioni di cui siamo responsabili, interruzioni che, in realtà, sono delle piccole morti. Sappiamo di non essere d’accordo con noi stessi, ma questo sembra non contare molto.

Dunque, battute su battute e la chat è gremita, più di fantasie che di promesse incrollabili: il collo non s’umetta né le pelvi s’incontrano. È così che ogni bacio e ogni incontro sono rinviati affinché si continui a dire di avere resistito fieramente e santamente. Occhi, glutei, piedi, seni, mani e cosce sono confinati nella distanza e ciò che s’intuisce come piacevole è respinto. Questo preludio d’eros equivoco è solo la metamorfosi dell’attesa che qualcosa accada, di una mano che incontri la nostra, di uno sguardo che si fissi sul nostro viso, di labbra che percorrano i nostri confini.

Eppure, in queste condizioni, siamo piuttosto sicuri di non poter essere mai sicuri. Attendere qualcuno è un po’ come cercare il volto di Dio tra i viandanti di un mercato: passeggiamo guardinghi e ansiosi, sbirciamo di sottecchi forme e colori; percepiamo che è vicino a noi, ma non lo è tanto da essere abbracciato e baciato; siamo coscienti che sia lontano, ma lo è tanto da essere aspettato a lungo. Ogni sfioramento e ogni fortuito toccamento ci fanno sussultare di piacere. Nella casualità del gesto, possiamo ancora appellarci all’inconsapevolezza, perderci ancora nell’alibi dei tanti impegni mondani, nella pretestuosa dichiarazione di sazietà sessuale o nell’alleanza coi tempi dei biblici rinvii.

Prima o poi, pollice e indice si stringeranno sul bottone e l’asola non resisterà allo stesso modo in cui abbiamo fatto noi in precedenza - ne siamo consapevoli, in fondo -. Le parole non morranno più di similitudini e liturgie, scomparendo, schiacciate semplicemente tra la bocca e l’inguine. A quel punto, per poter tentare un’altra fuga dovremmo essere in grado di assegnare all’orgasmo predicati e nomi perfetti, tuttavia verranno fuori solamente aggettivi.

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