sabato 4 gennaio 2020


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Solitudine


La luce è un fenomeno imprevedibile. Ci investe in un volo di cui siamo partecipi, ci trascina, eppure non ci stanchiamo di dichiararci immobili. Talvolta, la scopriamo nelle pieghe d’un corpo e ne siamo eccitati, ma non ci avvediamo che la porzione illuminata, lo spazio in cui qualcosa prende vita, è la sola probabilità d’esistere che ci spetta. La riconosciamo in chi ci sta innanzi e ci rifiutiamo di accettare che prende le forme che noi a essa attribuiamo. La probabilità è, pertanto, percepita come una specie di dannazione, una dannazione innominabile. Ci spostiamo gli uni verso gli altri a imitare figure assenti o, forse, più che assenti, sarebbe corretto dire figure inesistenti, leggendarie, provenienti dai miti della nostra infanzia, storie di eroi che ci portiamo appresso, come fossero soprabiti che rechiamo sottobraccio. Indossarli comporterebbe disagi d’ogni genere: la taglia non sarebbe mai quella giusta; spesso, anzi, è più grande di almeno due volte; il tessuto sarebbe inadatto al clima, tanto da farci avvampare di calore; saremmo goffi e ridicoli, ce ne vergogneremmo. Allora, per quale ragione ci ostiniamo a non gettarli via? Anzi, perché ci affanniamo a provare anche i soprabiti altrui?

Quella mattina, Augusto si sentiva preda e, nello stesso tempo, cacciatore. Si mise a passeggiare lentamente per la casa. Di stanza in stanza, la penombra gli faceva avvertire come dirompente la nostalgia di un corpo femminile. Intrappolato in una caverna archetipica, riusciva a balzarne fuori solo per pochi istanti, tempo durante il quale si vedeva nudo, piccolo e indifeso. Patrizia non era stata altro che la probabilità d’un ritrovamento. Patrizia, tuttavia, non era quella metà psico-fisica che egli era solito dipingere di rosso rubino in memoria dell’amante, moglie e madre perduta.  La sua limpida perspicuità non lo tradiva quasi mai; con sé stesso era altrettanto arguto, pugnace e graffiante quanto lo era con gli altri. Riaccompagnarla a casa, dopo quella notte, non era stato solo un gesto come tanti altri. La schizofrenia della donna, per lui, non era stato affatto un impedimento. Anzi, per certi aspetti, non se n’era mai curato.

Augusto Pandossa aveva un singolare pregio: sapeva di sé e ciò gli era utile a sapere anche degli altri. La camminata mattutina, al risveglio d’un giorno qualunque, fu un’incursione nella memoria, non nella memoria della lontananza e dell’assenza, ma nella memoria della presenza tangibile, di quelle visioni dalle quali la sua vita traeva origine ed energie. Procedeva a occhi chiusi e con particolare circospezione, sembrava impegnato in uno strano rituale: s’avanzava poggiando la punta del piede sinistro e, prima di sollevare l’altro piede, si metteva in ascolto, per un paio di secondi e non oltre, dell’impercettibile rumore del calpestio, come a gustarne l’evocazione.

Eleonora non c’era. Neppure lei. Sentì il bisogno di stringere a sé la figlia, che non incontrava ormai da parecchio tempo. Beatrice non c’era da vent’anni, sottrattagli da un male ignoto. Queste figure prendevano posto tra i suoi pensieri secondo il ritmo dei passi. Cercò una seggiola e si sedette per meditare sulla solitudine come condizione dell’esistenza, sforzandosi di osservarsi come uomo solo, ma non riuscì ad avvilirsi o a collocarsi in quella definizione, anzi, tanto più pensava al proprio isolamento quanto più si faceva beffe di chi lo giudicava emarginato; il che era un bel guaio, a dire il vero, perché escogitava sempre nuove burle a scapito di chi faceva di tutto per screditarlo.

Di fatto, il professore era, per così dire, un personaggio imbarazzante, a tratti, anche esasperante. Lo era principalmente perché nell’imbarazzo e nell’esasperazione che generava egli trovava diletto e appagamento. La donna di cui aveva bisogno, in sostanza, non c’era, ovvero, diversamente, aveva bisogno di una donna che non voleva al proprio fianco. Era fanciullesco, nella manifestazione del bisogno d’una figura che si prendesse cura di lui; inerme unicamente perché accettava di buon grado l’insoddisfazione, senza alcun moto di ricerca.

Dalle imposte non gli giungeva luce. Si rese conto d’essersi alzato più presto del solito, pur essendo smanioso di recarsi al liceo. Abbandonò in fretta la postazione, si vestì e scese per le strade. Lesto, s’avviò verso il bar dell’angolo, dove s’infilò a capo chino un po’ infreddolito.

<<Professore, buongiorno! Come mai a quest’ora?>> esordì il barman.
<<Come mai a quest’ora? Pino, che domanda è? Cosa vuoi sapere?>> rispose Pandossa, sempre mordace con inappuntabile rispetto.
<<Professore, lei è sempre il solito!>> aggiunse il barman sorridendo.
<<A dire il vero, non sono sempre il solito. C’è da impiccarsi ad essere sempre i soliti tutti i giorni.>> continuò il professore
<<Come posso darle torto!>>
<<Cerchiamo di capire! Poco fa, hai detto che sono sempre il solito. Poco dopo la mia battuta, invece, hai dichiarato il contrario, dandomi ragione. In pratica, secondo te, io dovrei impiccarmi?>>
<<Professore, lei, con questi giri di parole, è pericoloso. Cosa prende? Caffè?>>
<<No, mio caro! Un tavolino, se me lo concedi.>>
<<Come? Un tavolino?>>
<<Sì, un tavolino. In prestito, s’intende. È così strano? Ci conosciamo da tempo ormai. A chi dovrei chiedere un tavolino in prestito, se non a te?>>
<<Certo, professore! Glielo presto pure, di cuore, ma che…>>
<<Pino, mi serve un tavolino. Punto! Sta’ tranquillo ché ti farò buona pubblicità! Scriverò qualcosa con cui ringrazierò il Bar Pino per la gentile concessione del tavolino!>>
<<Professore, faccia pure! Mi sento onorato.>>
<<Bene! Allora, prendo questo. A presto e grazie!>>

***

Ogni storia comincia in questo specifico e quasi alienante modo: senza cominciare davvero. Quando ci accorgiamo che ci è sfuggito il cominciamento, è sempre troppo tardi. Ci si serve dell’approssimazione per dissimulare la sacrosanta concupiscenza; ci si nasconde nel soprabito, si guarda l’altro di sottecchi o in tralice, si trattiene l’acquolina, anziché deglutire, per poi spalmarla sulle labbra, confidando che l’altro studi scrupolosamente ogni nostro movimento; ci scopriamo abili a predicare in toni mistici e ascetici perché la nostra mano, allungandosi invano, non afferra quei fianchi. Ci dedichiamo, in pratica, all’attesa d’un cedimento, finendo col far soccombere la nostra stessa volontà.

Vorremmo essere avvolti e storditi da ampie volute di vapori medicamentosi e oppiacei al solo scopo di svegliarci nudi, stanchi e soddisfatti, tra le sue braccia e – perché no? – dentro una vasca colma di acqua calda, balsami e sali. Sentiremmo il sapore della fisicità, anche se dovremmo piangere di codardia per avere accettato il trionfo della sessualità narcotica. Abramo continuò imperterrito a negoziare la pace per Sodoma e Gomorra, pur sapendo che l’Altissimo Tribunale non gliel’avrebbe mai concessa, ma noi sappiamo solo dire che Abramo è un Padre, non corriamo il rischio del gran rifiuto. Achille ebbe Briseide per sé, nella propria tenda, dopo aver conquistato intere città, ma noi sappiamo solo dire che Achille era un eroe, non impugniamo la spada né versiamo sangue. Cristo fu riconosciuto quale Maestro eponimo dello spirito perché riuscì a rinunciare anche a sé stesso, ma noi sappiamo solo dire che è Egli un esempio, non prendiamo parte al banchetto di prostitute e barboni.

Noi sappiamo solo dire che qualcuno merita un privilegio o, diversamente, una lode speciale; tuttavia, nello stesso momento in cui lo diciamo, lasciamo morire nel linguaggio ogni principio d’azione, convinti, tra le altre cose, di aver agito e d’averlo fatto nel migliore dei modi possibili. La donna si fa sbirro togato e si compiace della privazione non perché la reputi sana e prudente, ma perché non vede l’ora di conoscere il nome da assegnare a ciò che smania di possedere. L’uomo, invece, allestisce spettacoli circensi per la propria vista, così da persuadersi d’esser sempre stato protagonista, d’esser stato il decisore occulto.

Gli amanti, quelli veri, quelli che possono fare a meno di inni e musichette, sanno far l’amore pure nei peggiori bar d’un quartiere malfamato, senza perdere mai grazia e riservatezza, giacché hanno cominciato a conoscersi – loro e non altri – toccandosi.


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