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Solitudine
La luce è un fenomeno
imprevedibile. Ci investe in un volo di cui siamo partecipi, ci trascina,
eppure non ci stanchiamo di dichiararci immobili. Talvolta, la scopriamo nelle
pieghe d’un corpo e ne siamo eccitati, ma non ci avvediamo che la porzione
illuminata, lo spazio in cui qualcosa prende vita, è la sola probabilità
d’esistere che ci spetta. La riconosciamo in chi ci sta innanzi e ci rifiutiamo
di accettare che prende le forme che noi a essa attribuiamo. La probabilità è,
pertanto, percepita come una specie di dannazione, una dannazione innominabile.
Ci spostiamo gli uni verso gli altri a imitare figure assenti o, forse, più che
assenti, sarebbe corretto dire figure inesistenti, leggendarie, provenienti dai
miti della nostra infanzia, storie di eroi che ci portiamo appresso, come
fossero soprabiti che rechiamo sottobraccio. Indossarli comporterebbe disagi
d’ogni genere: la taglia non sarebbe mai quella giusta; spesso, anzi, è più
grande di almeno due volte; il tessuto sarebbe inadatto al clima, tanto da
farci avvampare di calore; saremmo goffi e ridicoli, ce ne vergogneremmo.
Allora, per quale ragione ci ostiniamo a non gettarli via? Anzi, perché ci
affanniamo a provare anche i soprabiti altrui?
Quella mattina, Augusto si
sentiva preda e, nello stesso tempo, cacciatore. Si mise a passeggiare
lentamente per la casa. Di stanza in stanza, la penombra gli faceva avvertire
come dirompente la nostalgia di un corpo femminile. Intrappolato in una caverna
archetipica, riusciva a balzarne fuori solo per pochi istanti, tempo durante il
quale si vedeva nudo, piccolo e indifeso. Patrizia non era stata altro che la
probabilità d’un ritrovamento. Patrizia, tuttavia, non era quella metà
psico-fisica che egli era solito dipingere di rosso rubino in memoria
dell’amante, moglie e madre perduta. La
sua limpida perspicuità non lo tradiva quasi mai; con sé stesso era altrettanto
arguto, pugnace e graffiante quanto lo era con gli altri. Riaccompagnarla a
casa, dopo quella notte, non era stato solo un gesto come tanti altri. La
schizofrenia della donna, per lui, non era stato affatto un impedimento. Anzi,
per certi aspetti, non se n’era mai curato.
Augusto Pandossa aveva un
singolare pregio: sapeva di sé e ciò gli era utile a sapere anche degli altri.
La camminata mattutina, al risveglio d’un giorno qualunque, fu un’incursione
nella memoria, non nella memoria della lontananza e dell’assenza, ma nella
memoria della presenza tangibile, di quelle visioni dalle quali la sua vita traeva
origine ed energie. Procedeva a occhi chiusi e con particolare circospezione, sembrava
impegnato in uno strano rituale: s’avanzava poggiando la punta del piede
sinistro e, prima di sollevare l’altro piede, si metteva in ascolto, per un
paio di secondi e non oltre, dell’impercettibile rumore del calpestio, come a
gustarne l’evocazione.
Eleonora non c’era. Neppure lei.
Sentì il bisogno di stringere a sé la figlia, che non incontrava ormai da
parecchio tempo. Beatrice non c’era da vent’anni, sottrattagli da un male
ignoto. Queste figure prendevano posto tra i suoi pensieri secondo il ritmo dei
passi. Cercò una seggiola e si sedette per meditare sulla solitudine come
condizione dell’esistenza, sforzandosi di osservarsi come uomo solo, ma non
riuscì ad avvilirsi o a collocarsi in quella definizione, anzi, tanto più
pensava al proprio isolamento quanto più si faceva beffe di chi lo giudicava
emarginato; il che era un bel guaio, a dire il vero, perché escogitava sempre
nuove burle a scapito di chi faceva di tutto per screditarlo.
Di fatto, il professore era, per
così dire, un personaggio imbarazzante, a tratti, anche esasperante. Lo era
principalmente perché nell’imbarazzo e nell’esasperazione che generava egli
trovava diletto e appagamento. La donna di cui aveva bisogno, in sostanza, non
c’era, ovvero, diversamente, aveva bisogno di una donna che non voleva al
proprio fianco. Era fanciullesco, nella manifestazione del bisogno d’una figura
che si prendesse cura di lui; inerme unicamente perché accettava di buon grado
l’insoddisfazione, senza alcun moto di ricerca.
Dalle imposte non gli giungeva
luce. Si rese conto d’essersi alzato più presto del solito, pur essendo
smanioso di recarsi al liceo. Abbandonò in fretta la postazione, si vestì e
scese per le strade. Lesto, s’avviò verso il bar dell’angolo, dove s’infilò a
capo chino un po’ infreddolito.
<<Professore, buongiorno!
Come mai a quest’ora?>> esordì il barman.
<<Come mai a quest’ora?
Pino, che domanda è? Cosa vuoi sapere?>> rispose Pandossa, sempre mordace
con inappuntabile rispetto.
<<Professore, lei è sempre
il solito!>> aggiunse il barman sorridendo.
<<A dire il vero, non sono
sempre il solito. C’è da impiccarsi ad essere sempre i soliti tutti i
giorni.>> continuò il professore
<<Come posso darle
torto!>>
<<Cerchiamo di capire! Poco
fa, hai detto che sono sempre il solito. Poco dopo la mia battuta, invece, hai
dichiarato il contrario, dandomi ragione. In pratica, secondo te, io dovrei
impiccarmi?>>
<<Professore, lei, con
questi giri di parole, è pericoloso. Cosa prende? Caffè?>>
<<No, mio caro! Un
tavolino, se me lo concedi.>>
<<Come? Un tavolino?>>
<<Sì, un tavolino. In
prestito, s’intende. È così strano? Ci conosciamo da tempo ormai. A chi dovrei
chiedere un tavolino in prestito, se non a te?>>
<<Certo, professore! Glielo
presto pure, di cuore, ma che…>>
<<Pino, mi serve un
tavolino. Punto! Sta’ tranquillo ché ti farò buona pubblicità! Scriverò
qualcosa con cui ringrazierò il Bar Pino per la gentile concessione del
tavolino!>>
<<Professore, faccia pure!
Mi sento onorato.>>
<<Bene! Allora, prendo
questo. A presto e grazie!>>
***
Ogni storia comincia in questo
specifico e quasi alienante modo: senza cominciare davvero. Quando ci
accorgiamo che ci è sfuggito il cominciamento, è sempre troppo tardi. Ci si
serve dell’approssimazione per dissimulare la sacrosanta concupiscenza; ci si nasconde
nel soprabito, si guarda l’altro di sottecchi o in tralice, si trattiene
l’acquolina, anziché deglutire, per poi spalmarla sulle labbra, confidando che
l’altro studi scrupolosamente ogni nostro movimento; ci scopriamo abili a
predicare in toni mistici e ascetici perché la nostra mano, allungandosi
invano, non afferra quei fianchi. Ci dedichiamo, in pratica, all’attesa d’un
cedimento, finendo col far soccombere la nostra stessa volontà.
Vorremmo essere avvolti e
storditi da ampie volute di vapori medicamentosi e oppiacei al solo scopo di
svegliarci nudi, stanchi e soddisfatti, tra le sue braccia e – perché no? –
dentro una vasca colma di acqua calda, balsami e sali. Sentiremmo il sapore
della fisicità, anche se dovremmo piangere di codardia per avere accettato il
trionfo della sessualità narcotica. Abramo continuò imperterrito a negoziare la
pace per Sodoma e Gomorra, pur sapendo che l’Altissimo Tribunale non
gliel’avrebbe mai concessa, ma noi sappiamo solo dire che Abramo è un Padre,
non corriamo il rischio del gran rifiuto. Achille ebbe Briseide per sé, nella
propria tenda, dopo aver conquistato intere città, ma noi sappiamo solo dire
che Achille era un eroe, non impugniamo la spada né versiamo sangue. Cristo fu
riconosciuto quale Maestro eponimo dello spirito perché riuscì a rinunciare
anche a sé stesso, ma noi sappiamo solo dire che è Egli un esempio, non prendiamo
parte al banchetto di prostitute e barboni.
Noi sappiamo solo dire che
qualcuno merita un privilegio o, diversamente, una lode speciale; tuttavia,
nello stesso momento in cui lo diciamo, lasciamo morire nel linguaggio ogni
principio d’azione, convinti, tra le altre cose, di aver agito e d’averlo fatto
nel migliore dei modi possibili. La donna si fa sbirro togato e si compiace
della privazione non perché la reputi sana e prudente, ma perché non vede l’ora
di conoscere il nome da assegnare a ciò che smania di possedere. L’uomo,
invece, allestisce spettacoli circensi per la propria vista, così da persuadersi
d’esser sempre stato protagonista, d’esser stato il decisore occulto.
Gli amanti, quelli veri, quelli
che possono fare a meno di inni e musichette, sanno far l’amore pure nei
peggiori bar d’un quartiere malfamato, senza perdere mai grazia e riservatezza,
giacché hanno cominciato a conoscersi – loro e non altri – toccandosi.
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