venerdì 24 gennaio 2020


13
Nenia


<<Lei, professore, è un uomo malinconico, glielo si legge negli occhi!>> disse la dottoressa Nicaia, col capo chino sul carpaccio di tonno preparato con accuratezza da Pandossa.
<<Sì, è vero! Sono un uomo malinconico.>> rispose pacatamente il professore, senza perdere la confortevole giovialità e con la complicità inespressa di Eleonora, la quale era talmente abituata ai giochi del padre che per lei certe frasi o passavano inosservate o erano il preludio ad una vera e propria avventura.

Alzando lo sguardo su Augusto Pandossa, la dottoressa Nicaia, se ne sentì fulminata, ammaliata e, pur volendo ribattere, s’affrettò a riempire la bocca di cibo. Eleonora notò l’imbarazzo dell’amica, mentre suo padre esibì la solita imperturbabilità.

<<Papino, fatti dare un bacio! Sei sempre più bello. Questi capelli bianchi ti donano fascino.>> intervenne pungente Eleonora, che in fatto di provocazioni era degna della propria linea di sangue. Poco dopo, infatti, aggiunse, rivolgendosi all’amica: <<Tu che ne pensi? Secondo te, mio padre è un bell’uomo o il mio è solo il parere di una figlia innamorata?>>.

La dottoressa Nicaia, che aveva già conosciuto il personaggio Pandossa durante il fantomatico colloquio in istituto voluto dal preside, non si lasciò cogliere impreparata, era una donna che univa alla bellezza arguzia e buona cultura, ma, prima di rispondere, commise l’errore di ravviarsi i capelli per poi raccoglierli in un elastico, come se volesse concedersi il tempo per una mossa adeguata; il che consentì a Pandossa di poggiare delicatamente la forchetta sul bordo del piatto, tergersi le labbra dall’olio col tovagliolo e contemplare l’intero rituale. La contemplazione complicò le cose.
<<Ecco… Io penso che… sì! Augusto Pandossa è un bell’uomo, è affascinante; il tuo, Eleonora, non è solo il parere di una figlia innamorata, a mio avviso… però dovrebbe regalarmi, ogni tanto, qualche sorriso, dovrebbe ridere un po’.>>

Pandossa, sulle prime, sporse le labbra in avanti; poi disse: <<Di cosa dovrei ridere? Se lei brillantemente ha detto che io sono un uomo malinconico, è evidente che non posso regalarle sorrisi né ridere. Dovrei ridere della mia malinconia? Se così facessi, le toccherebbe prendermi in cura. Le sue contraddizioni, dottoressa, sono spaventose. Queste, a dire il vero, mi fanno sorridere. Deve essere un vostro vizio scolastico: fare la diagnosi e, nello stesso tempo, indicare la soluzione. Ciò che sta tra l’uno e l’altro degli estremi è abbandonato al caso. Io mi ritrovo spesso a contemplare con piacere ciò che mi accade intorno. Pensi a ciò che mi accade di accertare dal mio fruttivendolo di fiducia, il quale, a mio avviso, è una vittima dei disagi e dei mali sociali. La gente, infatti, si reca da lui, che mostra massima accoglienza e affabilità, e gli dice: - Volevo un chilo di mele! - Io, al suo posto, ne sarei afflitto. In che senso “volevo un chilo di mele”? Adesso, non le vuole più? Dunque, perché andare a inquietare un onesto lavoratore, farsi tanta strada, per poi dire “volevo ciò che adesso non voglio più”? Dunque, tornado a noi: o lei è affascinata dagli uomini malinconici oppure ha mentito perché il suo “però” è una congiunzione avversativa. Nel primo caso, non dovrebbe suggerirmi di ridere di qualcosa, ma limitarsi a godere del mio essere malinconico. Nel secondo caso, non dovrebbe dirmi di essere affascinata da me. E inoltre, mia cara dottoressa, lei sa bene che cos’è il meccanismo di difesa della negazione! O sbaglio?>>
<<Sì, lo conosco bene e so altrettanto bene che lei mi piace, professore!>>
<<Si provi ad immaginare un’altra scena!>> ricominciò Pandossa <<Interrogo un mio studente, il quale è palesemente impreparato, e gli dico “avresti dovuto studiare”. È assurdo: se non ha studiato o non ha voluto farlo, non posso mica dirgli che avrebbe dovuto farlo perché la mia affermazione non cambia le cose. Perché sprecare fiato? Vi crogiolate nella melma della retorica comune, che è orripilante. Mi conceda di cambiare argomento! Di cosa dovrei ridere? Mia moglie è morta da parecchio tempo, mia figlia è lontana da me, vivo da solo, ho fallito in quasi tutte le mie imprese ideali. Se ne ridessi, sarei per lo meno squilibrato. Invece, sono fiero di me; lo sono proprio perché non rido di ciò di cui non ha senso ridere.>>

<<Papino, non esagerare!>> intervenne con passione Eleonora, avvertendo un sussulto di amarezza dentro di sé che avrebbe voluto nascondere perfino a sé stessa. Prese la mano del padre. <<Tu mi hai donato tutto. È straziante sentirti dire queste cose. Ilenia non intendeva rattristarti, la conosco bene. È una donna amorevole e garbata.>>
<<Amore mio, io non sono triste. Ti prego di credermi! Non sono neppure depresso, anzi… riconoscere i propri fallimenti non significa affatto essere tristi o depressi.>>
<<Beh, comunque sia, vi prego di accettare le mie scuse!>> disse con tono dimesso Ilenia Nicaia.

All’età di sessant’anni, Augusto Pandossa non si perdeva una battaglia. Anzi se le cercava. Era un tipo, per così dire, classico, ma mai privo di fervore romantico, pur nella flemma che lo contraddistingueva. Concepiva il sogno non già come un piano dello spirito, bensì come sfogo anomalo ed enigmatico della psiche e quindi da interpretare con metodi scientifici. Non ne faceva un segreto, al contrario se ne compiaceva e divertiva. Per lui tutto rientrava nella ferrea capacità d’analisi dell’individuo vivente, oltre la quale chiudeva gli occhi. Aveva la sagacia dello stratega in azione, l’intuito d’un inveterato giocatore di borsa, il fiuto d’un investigatore, la severità d’un vecchio precettore. In effetti, la comunità civile non era un luogo idoneo all’esercizio della sua funzione sacerdotale. Non confidava affatto in un’opera di risanamento del linguaggio e dell’agire, ma, per così dire, non era disposto a lasciar passare le forme di codardia o di pusillanimità dell’animo umano.
       
Era una sera fredda e nevosa. La solitudine di Augusto si estese come un cedimento incontrastato al resto della compagnia. Si trattava d’uno stato d’animo che sciamava per la polverosa stanza come un insetto impazzito in fuga da un predatore. Eleonora tentava invano di eludere i taciti ammonimenti del padre, che, da buon osservatore qual era, non risparmiava alla figlia e alla commensale. Ella rispondeva alla sorveglianza con qualche timida sbirciatina verso la finestra, mentre Ilenia compiva alla meglio gesti piuttosto meccanici: qualche spolveratina qua e là, al vestitino, o qualche giochino antistress con la mollica appallottolata.

In verità, a quel punto della cena, Eleonora voleva recarsi lungo la balconata a rimirare le alture imbiancate dalle prime nevi; Ilenia, trentacinque anni, scultorea formosità vascolarizzata e abbellita da maliose venule verdognole, occhi grandi d’un grigio cangiante; né alta né bassa, naturalmente procace per sembiante: tra il biondo e il castano chiaro la chioma, era smaniosa di donare il proprio corpo a quell’uomo al quale chiedeva solo d’essere dominata. Dopo alcuni minuti di esitazione, tracannò, l’uno dopo l’altro, alcuni whisky e s’accoccolò sulla sedia tentando di stuzzicare Augusto. Ogni suo tentativo, però, era vano sulle prime, odioso in seguito, poiché nulla carpiva l’attenzione di lui. Bevve ancora; cominciò a rimuginare incoercibili pensieri intrusivi circa la propria condotta morale; seguitò a mugugnare; quindi mormorò qualcosa a labbra serrate: <<Ti voglio, Augusto!>>.
Il messaggio era appena udibile, ma tutti ne distinsero suono e significato. Eleonora si alzò, baciò l’amica sulla fronte e andò in veranda.

Augusto fu cinico: <<Se anche ci fosse stata la possibilità d’amarsi, tu l’hai annegata nel whisky. Non faccio sesso con una donna ubriaca. Pretendo la piena consapevolezza di chi dice di desiderarmi.>>
Ilenia restò impassibile. Mentre il whisky faceva il proprio arcinoto dovere, ella, che stentava a mettersi in piedi, pur desiderando avvicinarsi a lui, si ripeteva, con flagellante e liturgica severità, frasi d’ammonimento a voce non troppo bassa, nella speranza che una benevola interpretazione dell’uomo le facesse guadagnare una specie di perdono, ma la bocca le si faceva pastosa, si sentiva gonfia, le parole le uscivano monche.
<<Su, non essere stupida! E non blaterare!>> sentenziò Augusto.

Le parlò con estrema amabilità e paterna tenerezza. Il contenuto della frase, forse, non sorprendeva per acume, ma l’inaspettata saggezza, la metamorfosi dell’animo e l’ampia duttilità dell’uomo erano parvenze di divinità in uno scorcio fin troppo umano. Ella trovò, quindi, la forza per stringersi al petto dell’uomo, che la carezzò rassicurandola. Augusto si ritrovò padre e amante. Non riconobbe chiaramente le sensazioni che lo scotevano, ma seppe di dover intonare una nenia, una vecchia ninnananna che era solito cantare alla figlia per favorirne l’addormentamento. Ilenia si lasciò cullare fino al sonno profondo. Eleonora, che fino ad allora aveva trattenuto le lacrime, rientrò nella sala da pranzo col volto arrossato e bagnato, ma con un sorriso che impreziosiva il suo volto. Pose una mano sul capo del padre e gli disse: <<Papino mio, Ilenia è una brava ragazza… so che ha la mia età e ti conosco, ma sappi che mi ha dichiarato con fermezza il suo amore per te! È stata a lungo in silenzio. Ha atteso il mio rientro… Non dovrei influenzarti, ma…>>.

Augusto, intenerito, le rivolse un sorriso, ma non le rispose; poi sollevò Ilenia tra le braccia e la portò nella propria camera, dove la adagiò sul letto. Non prese posto al suo fianco, ma si sedette sulla poltroncina, prese il libro delle poesie di Paul Celan e si mise a leggere alla luce dell’abat-jour. Eleonora ne ascoltò la declamazione e la spiegazione per un paio d’ore, dopo le quali si congedò dal padre, vinta dal sonno.

La notte passò e parve statica. Augusto non dormì.

Il risveglio, per Ilenia, fu come una caduta nel vuoto. Aveva nausea e mal di testa; era stordita. Si mise a sedere sul letto, reggendosi sui gomiti, e fece fatica a inquadrare l’uomo che, solennemente, stava seduto quasi di fronte a lei.

Il professore, sempre ricco di parole, non le diede certo un buongiorno convenzionale: <<Per amare dovresti avere il coraggio d’essere una meretrice dal cuore d’oro, di far godere i mariti altrui e sporcare i pavimenti delle loro mogli. Non puoi mica stare tutta la vita a lustrarli. Amare significa avere il coraggio di profanare una chiesa, di distruggere un presepe appena allestito. Sono metafore. Il buon Dio mi perdoni! Ma c’è una pura violenza nell’amare che sta proprio nell’atto di sapere andare contro di sé, contro ciò che accetti come dovuto. Addio principino! Abbiamo letto tante poesie… Eppure non riusciamo a capirne niente. Dovremmo avere un sovrappiù, capire di dolore, di piacere, ma tutto viene risucchiato dal buco dei nostri bisogni inespressi, dal punto fisso che ci si piazza davanti tutte le mattine al risveglio e non si sa mai se ci lasci in pace la sera, prima d’andare a dormire. Fa’ in fretta! Prendimi!>>

Ilenia non si fece ripetere neppure due volte l’esortazione. Gattonando, balzò addosso ad Augusto e lo coprì di baci con tale frenesia da non lasciare spazio ad alcuna reazione. Tra un bacio e l’altro, gli sussurrava parole indebolite dall’affanno e dall’impeto. Gli strappò la camicia e lo cinse in un abbraccio, trascinandolo verso il letto. Appena giunto sul letto, Augusto le afferrò i polsi e glieli bloccò, affondando la propria lingua nella bocca di lei. Poi, entrambi si spogliarono in fretta. Ella voleva essere posseduta, il suo corpo ne urlava il bisogno. Egli, invece, cominciò a baciarle gli inguini per poi lasciare scorrere la lingua sulla vulva. Le cosce di lei gli si stringevano attorno al capo per le contrazioni del piacere, cui Augusto si opponeva con una decisa pressione delle mani, divaricandole. La sentì godere per la prima volta, ma non le concesse tregua. Entrò dentro di lei facendole sentire il peso e la forza del suo maturo corpo muscolare. Si rotolarono nel letto, amandosi e sperimentando una passione inspiegabile, indescrivibile, inimmaginabile. Si spossarono, ma, non ancora appagati, i corpi restavano intrecciati. Ilenia era distesa prona sotto di lui, che continuava a muoversi, col fiatone, con più calma che in precedenza, ma senza perdere vigore e agilità. Fu lei a interromperlo, ribaltando le rispettive posizioni. Augusto, supino, sentì il caldo respiro di Ilenia sui propri genitali.

Dalla stanza attigua giunsero le note del Testamento di Fabrizio De Andrè.

Eleonora era sveglia già da un po’ e gioiva all’idea che il padre potesse trovare amore, passione e conforto in una donna da lei stimata.   

***

Seduti l’uno accanto all’altra in un’auto qualunque, gli amanti, talora, non si sfiorano neppure, ma fanno scorrere verso la lontananza la strada che si srotola innanzi a loro, misurandola avidamente con lo sguardo, affinché, prima o poi, il limite della vista si muti nel divieto di andare oltre. Accade, così, che le mani non s’incontrino e le labbra non schiocchino; ne soffrono e, per poco, percepiscono qualcosa di simile alla gloria: non perché si scoprano capaci di respingere l’assalto d’un qualche nemico, ma perché l’incommensurabile limite di ciò che sta loro intorno, quand’anche sia apparentemente irrilevante, li fa sentire pirati e assaltatori, avventurieri e combattenti, capitani coraggiosi e sapienti predatori.

Il moto ondoso d’una pozza d’acqua, quantunque leggero e trascurabile, li spoglia lentamente, li accarezza, li bacia, li possiede e lo fa in un modo innominabile, inenarrabile, ineffabile, tale che, sottraendosi al linguaggio, nessuno dei due possa temere che l’amplesso diventi un racconto. Sulle prime, si sentono costretti a dire di non sentire il bisogno delle dita dell’altro che perlustrano l’inguine, ma tremito e sudore ne rigano il viso; poco dopo, denunciano un imprecisato senso di colpa, che, in qualità di padri, madri, mariti, mogli, sanno di dover portare con sé, non altrimenti che se fosse un salvacondotto imperiale o un segno di muto riconoscimento tra coloro che possono essere sempre riammessi al ballo di corte.

Le correnti impreviste e ignote, tuttavia, li conducono a largo, a parecchie miglia dalla costa, in direzione dei grandi banchi, dove la loro piccola imbarcazione comincia a beccheggiare e non esiste più il tempo della narrazione: lì, sotto la burrasca, devono aiutarsi per sfuggire al naufragio. A quel punto, cercano anzitutto conforto in un Kipling, in un Hemingway, un Melville e in chissà quale altro romanziere, dimenticando di avere avuto paura proprio della parola: lo dimenticano perché, adesso, sono dei narratori, sono essi stessi la storia autentica da non raccontare, quella dell’eros e della complicità, dell’eros e della comunione o, in verità, dell’eros e della fiducia.

Al ritorno dal viaggio, sono forti in quanto fieri sopravvissuti, cosicché la terraferma diventa la loro terra promessa: si sussurrano dolci e licenziose allusioni, ridacchiano e continuano a tremare; sono belli, eccitati, volenterosi.

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