venerdì 31 gennaio 2020


14
Menzogna


Vago, di notte, da sempre, come fossi rifiutato dal giaciglio, che mi accalora, mi sconsola e mi affatica. Ascolto, intorno a me, il respiro di chi dorme beato. D’altronde, è necessario che l’uomo riposi! Mangiucchio, passeggio, parlotto, scruto il buio o la penombra, nella speranza che qualcuno, destandosi per insonnia o qualcos’altro, mi faccia compagnia. Tutte le volte in cui si ha bisogno d’una compagnia notturna, il sonno altrui è profondo e imperturbabile. M’ingegno pure a produrre rumori neutrali, così da non essere troppo colpevole in caso di risvegli sperati o forzati. C’è poco da fare. Allora, rimugino, lascio che la mia testa si faccia pesante a poco a poco, mi faccio stordire dai miei stessi pensieri che elaboro in forma incompleta, non perché non sia capace di definirne almeno uno, ma perché, di fatto, accettando la complicità dello stordimento, comincio a immaginare che lo sforzo cognitivo mi porti dritto al sonno. Il più delle volte, l’armonia tra pensieri incompleti e sonno resta insensata e incompiuta. A un certo punto, sopraggiunge l’uggia sotto la specie dell’ipocondria e del sentimento tragico; temo d’essere colto da un malore e avvampo di paura: uno strano e diabolico bruciore si diparte dallo stomaco, mi percorre il torace e arriva alla fronte, provocandomi un principio di mancamento. Sudorazione, tremore e dispnea diventano semplici complementi del disagio, cui fa seguito, in genere, un pianto straziante: la paura della morte imminente mi fa pensare a mia figlia, che, qualora venissi meno, non avrebbe più la protezione che merita. Soffro intensamente all’idea che la mia piccola donna non possa più aggrapparsi alle spalle del suo forte papà. Forte? Sì! Può sembrare un aggettivo impertinente, invece è piuttosto pertinente! Eccome, se lo è! Non è mica semplice, alla mia età, cioè a sessant’anni, ritrovarsi pluridecorato dalla comunità scientifica, squattrinato e, per ciò stesso, squalificato dalla società, nei confronti della quale l’unica risorsa possibile diventa la menzogna. Bisogna pur raccontare qualcosa alla gente. Beh, non è obbligatorio! La gente si può pure mandare al diavolo, ma, con la scortesia, si peggiorerebbe il mio statuto sociale.

Il paradosso è presto fatto: se racconto la verità – cioè che sono un fallito – i miei interlocutori mi squalificano e, anziché impietosirsi, mi calpestano sempre di più; se racconto una bugia, la frustrazione e il senso di fallimento mi distruggono. Ci vorrebbe una sapiente miscela di menzogna e verità. Il verbo impietosirsi è un elemento di dubbio, talvolta anche di scandalo: sono sul punto di chiedere pietà e non me ne vergogno? No! Non me ne vergogno. Forse che c’è qualcosa di sbagliato nell’aspettarsi pietà? A ogni modo, ciò che più mi preoccupa è sempre lei, mia figlia, l’essere umano grazie al quale ho intuito in un istante che cosa significa essere pronti a cedere la propria vita per amore. Sono persuaso che mia figlia non sappia che lavoro fa suo padre.

Io non sono un professore. Non lo sono mai stato. Io sono un uomo che cammina in equilibrio sulla corda tesa dei funamboli, mentre la gente, dabbasso, pregusta la rovinosa caduta. La veglia notturna fa brutti scherzi! Ad una ad una, le sigarette vanno via dal pacchetto; mi sembra quasi d’inghiottirle: non fumavo da vent’anni. Il guaio è che, qualora mia figlia mi chiedesse cos’ho fatto in tutti questi anni, non potrei fare altro che mentire: dovrei mentire pure a lei perché una parte della mia esistenza è oscura anche per me. La mia piccola donna non sarebbe orgogliosa della parte oscura, ma…Insomma, io, in questo momento, dovrei essere disteso a ronfare e sognare; invece sono qui a scrivere, fumare e rimuginare.

È molto probabile che sia tutto frutto di una sorta di devianza psicoattitudinale. A quest’ora, non so neppure se il termine psicoattitudinale sia adeguato a quanto voglio esprimere, ma, di certo, rende l’idea, almeno secondo me, che, in materia di disagi, ho una certa esperienza: ho sperimentato il disadattamento – tirocinio diretto – prima d’insegnare che la vera letteratura, presto o tardi, ti fa vivere una sorta di male oscuro. Non tutti hanno questo privilegio.

Intorno a me, tutto continua a tacere. La casa accoglie altre due persone, Eleonora e Ilenia. Ho corrotto un paio di funzionari perché mia figlia fosse trasferita da queste parti. Ora, mi toccherebbe dirle la verità.

Possibile che nessuno si alzi neanche per andare a pisciare? A quanto pare, è possibile.

Mi sovvengono altre questioni notturne, anche se la capacità di pensiero va riducendosi. La nostra personalità è come una torta tagliata a fette: ogni fetta rappresenta un pezzo di noi e della nostra storia. Queste fette sono vive e non si lasciano mangiare facilmente. Madre, padre, nonni, educatori d’ogni genere e specie, esperienze e quant’altro sono fette di torta. Tutte le volte in cui entriamo in contatto con qualcuno, non ci rendiamo conto di dovergli offrire almeno una fetta di questa torta, lasciando dentro di noi un vuoto che può essere colmato solo da chi ha gradito appieno il dono ed è disposto a contraccambiare in un convivio comune e itinerante, sacro, inviolabile ed eterno. Altrimenti, non c’è speranza di sentimenti autentici. Di fatto, però, la torta perde il bell’aspetto di compattezza; tanto che non tolleriamo di buon grado le apparizioni fantasmagoriche nella nostra vita, ci rifiutiamo di accettare l’idea d’un distacco insensato o della superficialità con cui qualcuno tenta di rovinare la nostra torta. Per contro, non esitiamo a sbocconcellare le torte altrui nello spietato gioco della sopravvivenza: tanto maggiore è il numero di fette che ingoiamo, quanto più al sicuro ci sentiamo, quasi che potessimo offrire qualcos’altro a coloro che incontriamo. Ma non è così. Ne siamo talmente consapevoli da essere ridicoli. La nostra torta è una e una sola; offriamo per primi i pezzi di cui ci siamo impossessati per ingordigia e, intrepidi, ansiosi, fissiamo i mangiatori temendo che sentano un retrogusto improprio, un che d’amarognolo ed estraneo. Sappiamo bene che donare ciò che non ci appartiene accresce il rischio, già insito nell’incontro perché, così facendo, non difendiamo affatto la nostra personalità dagli attacchi, ma priviamo noi stessi e l’altro d’ogni forma di realtà. Dopo che abbiamo fatto consumare tutto, che cosa raccontiamo? E, se, per giunta, l’altro ci dice che il pasto è stato prelibato, con quale coraggio confessiamo che non c’è più alcunché da gustare?

Io sono diventato mia moglie e so che qualcosa sta per finire.

***

Ogni parola in eccesso, ogni sguardo mancato, evitante o parziale e ogni stratagemma messo a punto per nascondere le nostre deficienze rappresentano un sovrappiù di senescenza per il nostro corpo, che, di volta in volta, perde il contatto col mondo, s’impigrisce e si consuma in privazioni e precetti, omissioni e melliflue litanie. 

L’amore e la sessualità che ne deriva o lo precede si originano dalla debolezza, da un bisogno a causa del quale possiamo solo essere sicuri d’essere insicuri, ma che ci sforziamo di negare o raccontare come inesistente. Siamo tutti splendidamente imbecilli, ossessivamente dipendenti da orgasmi coreografici, più da quelli non avuti che da quelli avuti: basterebbe semplicemente sputtanarsi con eleganza e accuratezza per scampare il maggiore dei pericoli: la castigatezza, la vergogna o, diversamente, il senso della morale. Non la morale, si badi bene! Ma il senso della morale, l’idea secondo cui qualcosa è giusto o sbagliato e che ci fa sentire autorizzati a vedere il male solo nelle scelte altrui. 

L’amante, da qualche parte, ci aspetta, è mezzo nuda (o nudo, a seconda dei desideri di lettura), passeggia nervosamente per la casa, i capelli arruffati, sbuffa e s’impazientisce per il ritardo. In realtà, nessuno ha fissato un appuntamento, nessuno ha parlato del corpo e delle sue implacabili rivendicazioni; gli unici messaggi si sono epigraficamente esplicati in “ti penso”, “come stai?”, “che fai?”. 

Siamo troppo abituati a distinguere gesuiticamente le forme volgari da quelle che non lo sono, sebbene non si sappia di preciso cosa siano, le persone ammodo da quelle che non lo sono e così via. 

Il seguito si fa masturbatorio e le immagini appassiscono. Nella saga degli umori inariditi qualcuno s’insinua tra gli amanti, forse un povero cristo da compatire: è il più sventurato d’una compagnia, avrebbe bisogno di toccare ed essere toccato, ma non sa dirlo e finisce col revocare in dubbio i legami altrui. Non può accettare che altri goda. Così, a una mancanza ne segue un’altra. E i letti si scombinano e si rassettano troppo in fretta. 

E il petricore resta solo momento letterario.         

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