sabato 11 gennaio 2020


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Libertà


Intorno alle sette del mattino, Augusto Pandossa s’incamminò verso il liceo. Procedendo a sghimbescio, era goffo, senza perdere grazia. Ridacchiava all’idea di ciò che, di lì a poco, sarebbe accaduto; guardava di sottecchi la strada, ma non perdeva di vista il tavolino, che abbracciava con tale premura che tutti i passanti, incuriositi, ma esitanti, rallentavano il passo per prendere parte alla misteriosa scena: un uomo d’ammirevole portamento, curato, ben vestito, stringeva al proprio petto le gambe di ferro battuto d’un vecchio tavolino dal ripiano verdognolo, sul quale poggiava il mento, ancheggiando alquanto a reggerne il peso e non lesinando affatto ammiccamenti e strizzatine d’occhio verso gli spettatori.

Gli uomini sono capaci di trasformare in mistero l’ovvietà; vivono nella speranza d’uno scandalo da osservare, giudicare e riferire al solo fine, di cui la maggior parte di loro non è cosciente, di dare senso e significato a una vita fatta di pura evasione da sé. Costoro sanno di non potere essere protagonisti dell’evento straordinario, ma la sensazione della vista e l’uso della parola quale espressione della loro semplice presenza li eccita, li mantiene in vita fino all’episodio successivo, dissimula il lutto della prematura perdita della loro personalità, lutto mai elaborato, mai sottoscritto, ma che li ha sorpresi già in tenera età, tra la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta.

Accade così che un Pandossa, uno schizofrenico o un incidente mortale all’angolo d’una strada qualunque sono assimilati al gesto atletico del grande calciatore o al magistrale verso del poeta, che incantano e mandano in visibilio gruppi indistinti di uomini e donne smaniosi d’appartenere alla storia, frustrati dalla propria impalpabilità e che finiscono col diventare fasi di quegli stessi eventi di cui sono bisognosi. Tra un evento e l’altro, essi sperimentano il ricordo come premessa dell’attesa e fanno della propria memoria un laboratorio di sperimentazione: raccontano più volte, a sé stessi e agli altri, fino all’estenuazione, ciò che hanno visto; essi sono semplicemente testimoni; ogni narrazione è sempre più ricca, ma sempre più sofferta perché ogni aggiunta mendace e ogni sfumatura corrispondono a una privazione: raccontano non solo e non già ciò di cui avrebbero voluto essere attori, ma anche ciò che avrebbero voluto fare e che non hanno avuto il coraggio di fare. Menzogne e sfumature denunciano la loro sensazione di morte imminente. Il conflitto, poi, assume dimensioni spropositate e diventa incontenibile. Quando la fantasia non ha più la realtà come sostegno, quando non c’è più alcunché da inventare perché il tempo tra gli eventi è talmente lungo da indurre episodi depressivi, allora il disagio diventa collera e qualcuno deve pagare. Il primordiale istinto d’uccidere deve essere, per così dire, razionalizzato e qualcuno deve fungere da capro espiatorio.

Tutto ciò – con riferimento al nostro – non implicava che chiunque lo incontrava volesse passeggiare abbracciando un tavolino o smaltarsi le unghie di rosso rubino, sia chiaro!  Pandossa era un raffinato conoscitore di queste bizzarre manifestazioni della mente e, molto di frequente, giocava d’azzardo, anche cinicamente, sfidando direttamente l’inconscio. Col tempo, col quale s’era alleato, aveva anche imparato a separare perentoriamente e con rigore marziale, la vita privata, emotiva, intima, da quella pubblica sociale, nella quale era spesso buffonesco e felice d’interpretare, talora, un personaggio brechtiano, talaltra, un personaggio beckettiano, non disdegnando affatto sortite alla Tennessee Williams, quale ispettore dello zoo di vetro attraverso il quale si mettevano in mostra solamente animali imprigionati e feriti.

Giunse davanti al liceo sudaticcio e se ne infastidì. Sistemò il nuovo banchetto per la didattica quotidiana sul marciapiede, si tolse il soprabito beige, ripiegandolo accuratamente, e allentò il nodo della cravatta. Non gli piacque molto l’idea d’apparire dimesso o sportivo, ma si sottopose con scioltezza alla pratica ed alla desueta immagine. Si guardò intorno e incontrò solamente visi pallidi di studenti sonnecchianti. Il torpore inciso su quei volti, che, fin dal mattino, rivelavano freddezza, disinteresse, noia e chissà quante altre forme di distacco dal mondo, lo indispettiva; non si capacitava della difficoltà con cui alcuni adolescenti, di mattina, si staccavano dal letto. Gli sovvenne un discorsetto fattogli qualche giorno prima da una studentessa a proposito della scrittura e degli scrittori.

Il professore, in quell’occasione aveva parlato del metodo e del rigore degli studi, puntualizzando anche l’importanza della disciplina, della sveglia mattutina et cetera. La ragazza, su per giù, era intervenuta in questi termini: <<Scrivere non dovrebbe essere un amore, un passatempo, uno staccarsi dal mondo intero, chiudersi in una stanza al buio e mettere giù tutto quello che si pensa e che si vive? Dalle sue parole non sembra cosi! Io, da giovane studentessa, scrivo, ma più che altro compongo frasi, poche pagine. Per me è tanto, è qualcosa di mio. Questo mi fa stare bene! Se alzarsi alle cinque per scrivere la fa stare bene, per carità, non la giudico, ma se lo fa per le scadenze, per obbligo, non la vedo una cosa giusta!>>. Pandossa, di primo acchito, avrebbe voluto picchiarla. Poi, insultarla. Da ultimo, aveva fatto prevalere l’istinto paterno e la propria funzione di educatore. Non c’era dubbio che scrivere fosse un atto d’amore, ma egli aveva intuito di non potere rispondere autenticamente, se non con una suggestione che sperava fosse accolta. Aveva raccontato loro un aneddoto della prima guerra d’indipendenza. <<Nel 1848, Carlo Alberto, alla guida dell’esercito piemontese, oltrepassato il Ticino nei pressi di Pavia, si diresse alla conquista d’una patria che non c’era contro l’imponente esercito austriaco di Radetzky. L’avanzata non fu delle migliori, tanto che gli austriaci, provenendo dal Nordest, attraverso Vicenza, riuscirono ad appostarsi anzitempo entro le città del cosiddetto quadrilatero, Peschiera, Verona, Legnano e Mantova e, soprattutto, ad aggirare con una tattica brillante la colonna piemontese. Essi, anziché proseguire solo lungo l’asse Verona-Custoza, effettuarono una diversione in direzione di Mantova così da stringere in una tenaglia gli avversari, che, a quel punto, erano destinati a morte sicura. In aiuto di Radetzky, giunsero, infatti altri ventimila austriaci. Qualcuno, però, s’immolò per la libertà. Qualcuno rinunciò consapevolmente alla propria vita a vantaggio della vita altrui. Presso Curtatone e Montanara, tra Mantova e Goito, un gruppo di volontari, la maggior parte dei quali era costituita da studenti delle università di Siena e Pisa, scelse di fare da scudo umano, facendosi massacrare, pur di concedere a Carlo Alberto il tempo per il ribaltamento del fronte d’attacco. Grazie a quel gesto, quasi inenarrabile, gli austriaci furono battuti a Goito. In seguito, cadde anche la fortezza di Peschiera.>>. Prima di congedarsi dagli studenti, il professore aveva citato i versi di Dante: <<Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.>>.

Pensò, istupidito e commosso, a tutte le volte in cui aveva narrato questo evento; non riuscì a stimare neppure una minima porzione della propria incommensurabile caparbietà. Crollò le spalle e s’infilò in istituto, marciando con risolutezza verso il proprio armadietto, allineato, suo malgrado, con quello dei colleghi, che quella mattina non salutò. Prese alcuni libri, un po’ di fogli formato A4, del nastro adesivo, un pennarello e uscì sotto lo sguardo incredulo del preside, già impazientito e allarmato. All’uscita dall’edificio, dal quale aveva appena prelevato una sedia, andò ad allestire la postazione. Sulla colonna ai piedi della quale aveva preso posto, appese due foglietti. Sul primo scrisse Lezione Alternativa sull’Amore. Sul secondo: si ringrazia il Bar Pino per la concessione del tavolino. La rima lo divertì, quantunque banale. Frattanto, gli studenti, attratti dalla commedia e sicuri che il professore non li avrebbe delusi, cominciarono ad accalcarsi frenetici attorno a lui, borbottando e ridacchiando, ma contemplando Pandossa con intima reverenza. A poco a poco, infatti, senza che qualcuno desse loro indicazioni, si misero a sedere in cerchio, tra il marciapiede e la strada. Ebbene, Augusto Pandossa aveva deciso di tenere la propria lezione al di fuori dell’edificio scolastico.

***

La debuttante è sensuale, procace, irresistibile, ma, nello stesso tempo, è stonata e sgraziata; non azzecca una nota fin dall’ouverture e ancheggia come una gatta famelica. Il pubblico in sala borbotta malevolo e insoddisfatto, s’indispettisce, protesta, ma lo fa sottovoce. Nessuno osa gridare allo scandalo perché la bellezza della cantante sembra avere la meglio sui meriti artistici richiesti. Dunque, uno scandalo nello scandalo, sebbene il compromesso che ne scaturisce sia assai delicato e pericolante. A un certo punto, dal loggione si leva un fischio tanto volgare quanto penetrante: n’è autore un giovinastro spavaldo, il quale, poco dopo, urla: - Che gran femmina! -. L’intera platea resta basita, quasi avesse ricevuto un pugno allo stomaco. Tutti tacciono, cosicché l’eccitante e noncurante protagonista continua a cantare. Passato l’imbarazzo, arrivano pure i consensi bisbigliati. In effetti, è talmente bella che le donne ne hanno invidia e gli uomini vorrebbero giacere con lei. Di certo, il primo atto si conclude con un applauso.

Il sunto narrativo ci rinvia a Nanà, romanzo di Zola pubblicato sul finire del diciannovesimo secolo; la metafora che da esso traiamo, tuttavia, ci condanna all’inadeguatezza erotica e all’ignoranza del ritmo licenzioso di cui il nostro corpo ha bisogno. Educati in modo militaresco alla ricerca della perfezione, vogliamo vedere volare colombe bianche dappertutto, dimenticando che solo un vero serpente può stringersi con forza attorno a un albero massiccio. Pretendiamo la luce del sole quale benedizione eterna e inoppugnabile, trascurando che solamente le nubi contengono l’acqua purificatrice e rigenerante. Finiamo troppo spesso con l’essere parolai e ciarlatani, capaci esclusivamente di grandi dichiarazioni, smarriti nella fiabesca consacrazione di entità intangibili: ‘famiglia’, ‘amore’, ‘rispetto’, ‘fedeltà’ et similia; le quali cose s’impongono come disvalori non perché lo siano effettivamente, ma perché, in verità, sono vissute come principi da preservare e difendere. Se tutto ciò ha bisogno d’essere preservato e difeso, allora è probabile che sia sempre sul punto d’essere distrutto.

Eros è imperfetto, è figlio di Ricchezza e Povertà, ce lo dice Platone, quel Platone cui è stata attribuita maldestramente e impunemente una sensualità pallida e smorta e di cui sicuramente non s’è letto il Simposio. Eros è anche un ladro, ruba ciò che gli manca, come noi desideriamo ciò di cui siamo privi, ma non se ne vergogna, non si fa scrupoli perché è buono e cattivo, sa di dover stare in quel mondo mediano in cui non si è mai ricchi, pur avendo tante risorse, e non si è mai poveri, pur essendo fondamentalmente pieni di beni.

Gli amanti, quale che ne sia l’accezione, matrimoniale, extraconiugale, occasionale, devono sapersi spogliare tra le ombre altrui, devono essere in grado d’insinuare una mano sotto il tavolo alla presenza di commensali ignari, devono essere capaci di trasformare il sedile d’un auto in una suite imperiale. Gli amanti sono un compromesso esemplare, uno dei pochi grazie ai quali l’esistenza è fenomeno affascinante.      

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