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Libertà
Intorno alle sette del mattino,
Augusto Pandossa s’incamminò verso il liceo. Procedendo a sghimbescio, era
goffo, senza perdere grazia. Ridacchiava all’idea di ciò che, di lì a poco, sarebbe
accaduto; guardava di sottecchi la strada, ma non perdeva di vista il tavolino,
che abbracciava con tale premura che tutti i passanti, incuriositi, ma
esitanti, rallentavano il passo per prendere parte alla misteriosa scena: un
uomo d’ammirevole portamento, curato, ben vestito, stringeva al proprio petto
le gambe di ferro battuto d’un vecchio tavolino dal ripiano verdognolo, sul
quale poggiava il mento, ancheggiando alquanto a reggerne il peso e non
lesinando affatto ammiccamenti e strizzatine d’occhio verso gli spettatori.
Gli uomini sono capaci di trasformare
in mistero l’ovvietà; vivono nella speranza d’uno scandalo da osservare,
giudicare e riferire al solo fine, di cui la maggior parte di loro non è
cosciente, di dare senso e significato a una vita fatta di pura evasione da sé.
Costoro sanno di non potere essere protagonisti dell’evento straordinario, ma
la sensazione della vista e l’uso della parola quale espressione della loro
semplice presenza li eccita, li mantiene in vita fino all’episodio successivo,
dissimula il lutto della prematura perdita della loro personalità, lutto mai
elaborato, mai sottoscritto, ma che li ha sorpresi già in tenera età, tra la fine
dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta.
Accade così che un Pandossa, uno
schizofrenico o un incidente mortale all’angolo d’una strada qualunque sono
assimilati al gesto atletico del grande calciatore o al magistrale verso del
poeta, che incantano e mandano in visibilio gruppi indistinti di uomini e donne
smaniosi d’appartenere alla storia, frustrati dalla propria impalpabilità e che
finiscono col diventare fasi di quegli stessi eventi di cui sono bisognosi. Tra
un evento e l’altro, essi sperimentano il ricordo come premessa dell’attesa e
fanno della propria memoria un laboratorio di sperimentazione: raccontano più
volte, a sé stessi e agli altri, fino all’estenuazione, ciò che hanno visto;
essi sono semplicemente testimoni; ogni narrazione è sempre più ricca, ma
sempre più sofferta perché ogni aggiunta mendace e ogni sfumatura corrispondono
a una privazione: raccontano non solo e non già ciò di cui avrebbero voluto
essere attori, ma anche ciò che avrebbero voluto fare e che non hanno avuto il
coraggio di fare. Menzogne e sfumature denunciano la loro sensazione di morte
imminente. Il conflitto, poi, assume dimensioni spropositate e diventa
incontenibile. Quando la fantasia non ha più la realtà come sostegno, quando
non c’è più alcunché da inventare perché il tempo tra gli eventi è talmente
lungo da indurre episodi depressivi, allora il disagio diventa collera e
qualcuno deve pagare. Il primordiale istinto d’uccidere deve essere, per così
dire, razionalizzato e qualcuno deve fungere da capro espiatorio.
Tutto ciò – con riferimento al
nostro – non implicava che chiunque lo incontrava volesse passeggiare
abbracciando un tavolino o smaltarsi le unghie di rosso rubino, sia
chiaro! Pandossa era un raffinato
conoscitore di queste bizzarre manifestazioni della mente e, molto di
frequente, giocava d’azzardo, anche cinicamente, sfidando direttamente
l’inconscio. Col tempo, col quale s’era alleato, aveva anche imparato a
separare perentoriamente e con rigore marziale, la vita privata, emotiva,
intima, da quella pubblica sociale, nella quale era spesso buffonesco e felice
d’interpretare, talora, un personaggio brechtiano, talaltra, un personaggio
beckettiano, non disdegnando affatto sortite alla Tennessee Williams, quale
ispettore dello zoo di vetro attraverso il quale si mettevano in mostra
solamente animali imprigionati e feriti.
Giunse davanti al liceo sudaticcio
e se ne infastidì. Sistemò il nuovo banchetto per la didattica quotidiana sul
marciapiede, si tolse il soprabito beige, ripiegandolo accuratamente, e allentò
il nodo della cravatta. Non gli piacque molto l’idea d’apparire dimesso o
sportivo, ma si sottopose con scioltezza alla pratica ed alla desueta immagine.
Si guardò intorno e incontrò solamente visi pallidi di studenti sonnecchianti.
Il torpore inciso su quei volti, che, fin dal mattino, rivelavano freddezza,
disinteresse, noia e chissà quante altre forme di distacco dal mondo, lo indispettiva;
non si capacitava della difficoltà con cui alcuni adolescenti, di mattina, si
staccavano dal letto. Gli sovvenne un discorsetto fattogli qualche giorno prima
da una studentessa a proposito della scrittura e degli scrittori.
Il professore, in quell’occasione
aveva parlato del metodo e del rigore degli studi, puntualizzando anche
l’importanza della disciplina, della sveglia mattutina et cetera. La ragazza,
su per giù, era intervenuta in questi termini: <<Scrivere non dovrebbe
essere un amore, un passatempo, uno staccarsi dal mondo intero, chiudersi in
una stanza al buio e mettere giù tutto quello che si pensa e che si vive? Dalle
sue parole non sembra cosi! Io, da giovane studentessa, scrivo, ma più che
altro compongo frasi, poche pagine. Per me è tanto, è qualcosa di mio. Questo
mi fa stare bene! Se alzarsi alle cinque per scrivere la fa stare bene, per
carità, non la giudico, ma se lo fa per le scadenze, per obbligo, non la vedo
una cosa giusta!>>. Pandossa, di primo acchito, avrebbe voluto
picchiarla. Poi, insultarla. Da ultimo, aveva fatto prevalere l’istinto paterno
e la propria funzione di educatore. Non c’era dubbio che scrivere fosse un atto
d’amore, ma egli aveva intuito di non potere rispondere autenticamente, se non
con una suggestione che sperava fosse accolta. Aveva raccontato loro un
aneddoto della prima guerra d’indipendenza. <<Nel 1848, Carlo Alberto,
alla guida dell’esercito piemontese, oltrepassato il Ticino nei pressi di
Pavia, si diresse alla conquista d’una patria che non c’era contro l’imponente
esercito austriaco di Radetzky. L’avanzata non fu delle migliori, tanto che gli
austriaci, provenendo dal Nordest, attraverso Vicenza, riuscirono ad appostarsi
anzitempo entro le città del cosiddetto quadrilatero, Peschiera, Verona,
Legnano e Mantova e, soprattutto, ad aggirare con una tattica brillante la
colonna piemontese. Essi, anziché proseguire solo lungo l’asse Verona-Custoza,
effettuarono una diversione in direzione di Mantova così da stringere in una
tenaglia gli avversari, che, a quel punto, erano destinati a morte sicura. In
aiuto di Radetzky, giunsero, infatti altri ventimila austriaci. Qualcuno, però,
s’immolò per la libertà. Qualcuno rinunciò consapevolmente alla propria vita a
vantaggio della vita altrui. Presso Curtatone e Montanara, tra Mantova e Goito,
un gruppo di volontari, la maggior parte dei quali era costituita da studenti
delle università di Siena e Pisa, scelse di fare da scudo umano, facendosi
massacrare, pur di concedere a Carlo Alberto il tempo per il ribaltamento del
fronte d’attacco. Grazie a quel gesto, quasi inenarrabile, gli austriaci furono
battuti a Goito. In seguito, cadde anche la fortezza di Peschiera.>>.
Prima di congedarsi dagli studenti, il professore aveva citato i versi di
Dante: <<Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.>>.
Pensò, istupidito e commosso, a
tutte le volte in cui aveva narrato questo evento; non riuscì a stimare neppure
una minima porzione della propria incommensurabile caparbietà. Crollò le spalle
e s’infilò in istituto, marciando con risolutezza verso il proprio armadietto,
allineato, suo malgrado, con quello dei colleghi, che quella mattina non salutò.
Prese alcuni libri, un po’ di fogli formato A4, del nastro adesivo, un
pennarello e uscì sotto lo sguardo incredulo del preside, già impazientito e
allarmato. All’uscita dall’edificio, dal quale aveva appena prelevato una
sedia, andò ad allestire la postazione. Sulla colonna ai piedi della quale
aveva preso posto, appese due foglietti. Sul primo scrisse Lezione Alternativa
sull’Amore. Sul secondo: si ringrazia il Bar Pino per la concessione del
tavolino. La rima lo divertì, quantunque banale. Frattanto, gli studenti,
attratti dalla commedia e sicuri che il professore non li avrebbe delusi,
cominciarono ad accalcarsi frenetici attorno a lui, borbottando e ridacchiando,
ma contemplando Pandossa con intima reverenza. A poco a poco, infatti, senza
che qualcuno desse loro indicazioni, si misero a sedere in cerchio, tra il
marciapiede e la strada. Ebbene, Augusto Pandossa aveva deciso di tenere la
propria lezione al di fuori dell’edificio scolastico.
***
La debuttante è sensuale, procace,
irresistibile, ma, nello stesso tempo, è stonata e sgraziata; non azzecca una
nota fin dall’ouverture e ancheggia come una gatta famelica. Il pubblico in
sala borbotta malevolo e insoddisfatto, s’indispettisce, protesta, ma lo fa
sottovoce. Nessuno osa gridare allo scandalo perché la bellezza della cantante
sembra avere la meglio sui meriti artistici richiesti. Dunque, uno scandalo
nello scandalo, sebbene il compromesso che ne scaturisce sia assai delicato e
pericolante. A un certo punto, dal loggione si leva un fischio tanto volgare
quanto penetrante: n’è autore un giovinastro spavaldo, il quale, poco dopo,
urla: - Che gran femmina! -. L’intera platea resta basita, quasi avesse
ricevuto un pugno allo stomaco. Tutti tacciono, cosicché l’eccitante e noncurante
protagonista continua a cantare. Passato l’imbarazzo, arrivano pure i consensi
bisbigliati. In effetti, è talmente bella che le donne ne hanno invidia e gli
uomini vorrebbero giacere con lei. Di certo, il primo atto si conclude con un
applauso.
Il sunto narrativo ci rinvia a Nanà, romanzo di Zola pubblicato sul
finire del diciannovesimo secolo; la metafora che da esso traiamo, tuttavia, ci
condanna all’inadeguatezza erotica e all’ignoranza del ritmo licenzioso di cui
il nostro corpo ha bisogno. Educati in modo militaresco alla ricerca della
perfezione, vogliamo vedere volare colombe bianche dappertutto, dimenticando
che solo un vero serpente può stringersi con forza attorno a un albero
massiccio. Pretendiamo la luce del sole quale benedizione eterna e inoppugnabile,
trascurando che solamente le nubi contengono l’acqua purificatrice e
rigenerante. Finiamo troppo spesso con l’essere parolai e ciarlatani, capaci
esclusivamente di grandi dichiarazioni, smarriti nella fiabesca consacrazione
di entità intangibili: ‘famiglia’, ‘amore’, ‘rispetto’, ‘fedeltà’ et similia; le quali cose s’impongono
come disvalori non perché lo siano effettivamente, ma perché, in verità, sono
vissute come principi da preservare e difendere. Se tutto ciò ha bisogno
d’essere preservato e difeso, allora è probabile che sia sempre sul punto
d’essere distrutto.
Eros è imperfetto, è figlio di Ricchezza
e Povertà, ce lo dice Platone, quel Platone cui è stata attribuita
maldestramente e impunemente una sensualità pallida e smorta e di cui
sicuramente non s’è letto il Simposio.
Eros è anche un ladro, ruba ciò che gli manca, come noi desideriamo ciò di cui
siamo privi, ma non se ne vergogna, non si fa scrupoli perché è buono e
cattivo, sa di dover stare in quel mondo mediano in cui non si è mai ricchi,
pur avendo tante risorse, e non si è mai poveri, pur essendo fondamentalmente
pieni di beni.
Gli amanti, quale che ne sia
l’accezione, matrimoniale, extraconiugale, occasionale, devono sapersi
spogliare tra le ombre altrui, devono essere in grado d’insinuare una mano
sotto il tavolo alla presenza di commensali ignari, devono essere capaci di
trasformare il sedile d’un auto in una suite imperiale. Gli amanti sono un
compromesso esemplare, uno dei pochi grazie ai quali l’esistenza è fenomeno affascinante.
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