venerdì 6 dicembre 2019


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Parola


Impazientito, andò a farsi una doccia calda, con i cui vapori si dilettò per più di venti minuti. Altrettanto comodamente fece colazione. Poi aperse l’armadio della camera da letto, si soffermò a meditare su quale sarebbe stato il parere della moglie e fu certo di dover indossare un bel vestito blu, con camicia bianca e cravatta rossa. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, rise della propria emotività e seguitò a vestirsi. Alle nove e trenta, Augusto Pandossa, ben vestito e profumato, era già sotto casa ad attendere che l’autobus passasse a prelevarlo. Molto di rado, si metteva alla guida della propria autovettura. L’autobus gli permetteva di leggere e meditare, benché gli toccasse farlo in mezzo alla calca. Dopo avere atteso per un quarto d’ora, senza vedere alcun mezzo pubblico, vide arrivare dall’angolo alla sua sinistra un’utilitaria con a bordo dei ragazzi e il cui autista pigiava all’impazzata il clacson. Il suono era diretto proprio a lui. Uno dei ragazzi, infatti, sporgendosi dal finestrino gli urlò allegramente: <<Professore! Salga su! La accompagniamo noi!>>. L’autovettura gli si fermò accanto.

Pandossa, per la seconda volta, quella mattina, si sentì pungere dal batticuore.

I suoi alunni del quinto anno avevano marinato la scuola per seguirlo. I ragazzi gli fecero subito posto sul sedile anteriore ed egli non esitò ad occuparlo né ad assumere lo stile del compagnone. Il ragazzo che stava alla guida ripartì facendo sgommare le ruote. Il professore gli diede il cosiddetto cinque, oltre a qualche consiglio sulla guida sportiva, facendo esplodere nell’abitacolo un entusiasmo frenetico. Un’alunna ancora diciassettenne gli disse: <<Prof, lei è troppo fresco!>>. Il professore ruotò il capo verso di lei, aggrottò comicamente le sopracciglia e la redarguì paternamente: <<Paola, fresco non significa un bel niente! Ragazzi miei, dovete riformare il vostro codice. Poi, c’è da dire che non mi sento fresco. Beh, a pensarci bene, stamani, forse, un po’ fresco sono. Comunque, ne riparleremo in classe. È un bel principio di discussione.>>. Un altro ragazzo ribadì: <<Prof, se ne faccia una ragione! Lei è troppo fresco.>>. Pandossa, che in materia di linguaggio non cedeva neppure una virgola, aggiunse: <<Allora, ragazzi, può anche starmi bene l’aggettivo. Però, intendiamoci almeno sul significato di fresco!>>. Il ragazzo che stava alla guida e che fino a quel momento non aveva partecipato alla discussione, disse: <<Fresco è un tipo ok!>>. Ancora una volta Pandossa, che, in pratica, tra una battuta e l’altra, stava offrendo indirettamente agli studenti una lezione preziosa sul rapporto tra significante e significato intervenne: <<E che tipo sarebbe un tipo ok? Ragazzi, attenzione! Il linguaggio ha delle funzioni precise. Ne abbiamo parlato più volte. Insomma, non potete dire a qualcuno che è un tipo ok o fresco, se poi non siete d’accordo sul significato!>>.

Paola, pur essendo la più giovane del gruppo, appariva come la più attiva e interessata: <<Prof, un tipo fresco è uno che sta dentro le situazioni, che c’ha sempre la risposta pronta perché sa dove mettere le mani; insomma, uno è fresco, se non cade mai dalle nuvole, se non è noioso.>>

Pandossa sembrò soddisfatto, ma gli toccò ammonire la studentessa: <<Paola, adesso ci siamo, ma non ripetere mai più “c’ha”!>>.
La ragazza, imbarazzata, si affrettò a correggere il tiro: <<Mi scusi, prof!>>.
<<Eh, no>> fece il professore <<non devi chiedere scusa a me, ma a te stessa!>>.
<<Io lo sapevo!>> soggiunse Giovanni, l’altro ragazzo seduto accanto a Paola <<Quando uno è fresco è fresco. Punto.>>
Molto premuroso, l’autista, si rivolse al professore cambiando argomento: <<Spero che non sia troppo tardi per il convegno. Siamo arrivati, ma sono già le dieci e dieci.>>.
<<Beata ingenuità!>> lo rassicurò il professore <<Sappi, mio caro, che nessun convegno è mai cominciato in orario! Vedrai! Siamo i primi…o tra i primi.>>.

Parcheggiata l’autovettura, la strana comitiva s’avviò verso l’aula magna dell’università, che, in effetti, era ancora semivuota. Pandossa cercò il cartellino che recasse il suo nome sul banco dei relatori e prese posto da solo, tra carteggi pergamenati ed elegantemente rifiniti e depliant col marchio dell’università in cui si faceva il resoconto pubblicitario dell’evento e si garantivano i crediti formativi agli iscritti. Ne esaminò il contenuto rapidamente per poi allontanare tutto quel materiale dal proprio spazio con un gesto netto della mano. Frattanto, gli si fece incontro il collega ed ex compagno di studi che lo aveva voluto quale relatore. Si abbracciarono, si scambiarono qualche parola di sincero affetto e continuarono a parlottare anche durante i primi interventi degli altri relatori, sotto lo sguardo sospetto del moderatore, che sicuramente non gradiva il brusio di sottofondo. L’intervento di Augusto Pandossa sarebbe stato l’ultimo tra quelli previsti per la mattina. Il professore attese sonnecchiando.

Verso le tredici, il moderatore lo interpellò per dargli la parola. Furono necessari due richiami e una gomitata dell’amico per scuoterlo dal torpore. Vincendo di colpo il sonno, iniziò a parlare, dopo aver strizzato l’occhio ai propri studenti che simularono un’onda di acclamazione in pieno stile da stadio e attirandosi lo sdegno dell’intero uditorio. Pandossa si preoccupò, anzitutto, di non deluderli: <<Joyce! Eccellente scrittore. Erudito, imponente, magistrale. Chiunque voglia definirsi scrittore non può non aver letto Ulisse o, allo stesso modo, Guerra e pace. Gli interventi sulle strutture e sulle sovrastrutture, sulle forme et cetera sono stati illuminanti. Si dice... Ed è bene che si dica. Vorrei capire, tuttavia, cosa illuminano. Mah! A che tutto questo? Mi si chiede di esprimere un parere sulle nuove correnti letterarie. Bene! Anzitutto, vorrei che non fossero delle correnti.>>.

Pandossa, dopo questo esordio, fece una pausa di un paio di minuti, causando non poco disagio. I suoi fans ridacchiarono. Gli altri uditori ne furono visibilmente imbarazzati. Non furono da meno gli accademici. Poi, d’improvviso, ricominciò: <<Se uno è fresco è fresco. Me l’ha detto un mio studente. Io sono un tipo fresco oppure un tipo ok. Questo linguaggio è primitivo, originario, essenziale. Però, per esso bisogna trovare un contesto. Ecco il compito dello scrittore! Joyce ha fatto il suo tempo, collega. Basta! Non se ne può più. Mi dica: lei sarebbe in grado di scrivere un romanzo alla Joyce? Non credo proprio. Non ha la faccia. Allora, lei è del tutto fuori del contesto. Non può impiegare vent’anni della sua vita ad analizzare un autore al quale spera disperatamente di assomigliare. È frustrante. E inoltre, non capisco, credetemi, come si possa violentare a tal punto la mente di uno scrittore, morto da chissà quanti anni e che, di conseguenza, non potrà mai reggere un confronto, a tal punto, dicevo, da fare ipotesi allucinatorie su ciò che lo ha spinto a scrivere in un modo anziché in un altro... per poi produrre un saggio di seicento o settecento pagine di analisi letteraria? Io la chiamerei ideazione suicidaria. Insomma, scriva un bel romanzo! Alla Joyce, se le riesce di farlo. Può anche darsi che lo leggeremo.>>.

Nel frattempo, l’accademico al quale Pandossa aveva rivolto il messaggio era rosso e gonfio di rabbia, sul punto di sbottare in invettive e improperi d’ogni genere. Il pubblico, tra le altre cose, cominciava a divertirsi, pur trattenendosi dall’abbandonarsi alle risa; la qual cosa indispettì oltremisura l’esperto joyceano, secondo il cui punto di vista le nuove correnti letterarie avrebbero dovuto trarre origine da certi classici allo scopo di reinventarli, se non, addirittura, ricostruirli. La sua irritazione giunse al culmine, quando la voce anonima di un allievo universitario, dal fondo dell’aula magna, gridò “bravo” a Pandossa. A quel punto, infatti, l’illustre saggista si alzò furioso e abbandonò tra i fischi il consesso. Dopodiché, Augusto Pandossa, come se nulla fosse accaduto, procedette nella dissertazione, sempre in stile dissacrante e canzonatorio: <<Dal momento che quel pover’uomo ci ha abbandonati, non abbiamo più qualcuno da insultare.>>. Questa volta, dall’uditorio si sollevò una risata uniforme e fragorosa. <<Signori, ci sono delle funzioni del linguaggio che, tuttora, ci rifiutiamo di utilizzare, come se dovessimo rispettare una sorta di comandamento della sacra letteratura. La parola è anzitutto un rumore, un suono indecifrabile e il linguaggio è insufficiente a dirci come stanno le cose, fuorché si sia disposti a credere che c’è una corrispondenza tra la chimica del cervello e quello stesso linguaggio che utilizziamo con la convinzione di dire qualcosa di sensato. Allora, a uno scrittore contemporaneo non resta che volgere lo sguardo a tutti quei codici del tutto privi di sovrastrutture, i codici della necessità, quelli dei giovani ignari del problema del linguaggio, quelli dei bambini e, perché no, quello delle prostitute o dei criminali. Immaginate una prostituta extracomunitaria che dica ad un cliente “Su, vieni, bello porco”.>>.
A queste parole, uno degli ascoltatori, tronfio ed insolente, balzò in piedi e interruppe il relatore: <<Lei è un esperto di prostituzione! Dico bene, professore?>>.

Senza lasciarsi intimorire, Pandossa rispose: <<Io predico bene e razzolo altrettanto bene. Caro signore, se devo parlare dei linguaggi essenziali, dei rumori melodiosi della strada, non posso esimermi dal fare indagini sul campo. Non posso rimproverare un collega per la sua distanza da un contesto reale per poi commettere lo stesso errore. Quindi, per me, frequentare le prostitute o i transessuali o i criminali è un dovere da letterato.>>

***

L'esistenza è fatta di segni e simboli, cioè di elementi che rinviano sempre a qualcos’altro e che, in quanto tali, non rivelano né raccontano alcunché. Al contrario, si può pure ipotizzare che essi siano veri e propri enigmi, prove d’una vicenda divina o arcana assegnateci e imposteci. Purtroppo e per natura, ci riteniamo sempre liberi d'interpretarli e trarne una storia, cosicché l'omissione è trasformata in menzogna, la dimenticanza in miseria morale, il sorriso in forma di spensieratezza. Eppure non c'è causa che corrisponda a un vero e proprio effetto, altrimenti non avremmo beneficiato della relatività di Einstein, della narrativa di Mann e Dostoevskij, della poesia di Rilke. Cosa ci spinge così violentemente verso il giudizio e verso l’oscuramento dell’identità altrui?

In genere, tutti noi dichiariamo di pretendere la verità, specie in amore, in nome del quale siamo pronti vedere luce dappertutto, ma la verità non può che essere un fatto o la sua rappresentazione. E un fatto e la sua rappresentazione si prestano unicamente a essere vissuti, non già a essere riferiti e dedotti. Forse che sorridere al dolore altrui significa disinteresse o impudenza? Forse che non farsi sentire per un determinato periodo equivale a mostrare menefreghismo? Forse che per amare qualcuno è necessario rinunciare a qualsiasi altro corpo?

Il no a queste domande è netto e perentorio, allo stesso modo in cui lo è il sì. Il dominio della possibilità non è passibile di giudizio, non si sottomette alla copula e agli aggettivi. Mentre io scrivo e ‘oso pensare male’ d’una donna che m’abbia detto di no, ella, molto probabilmente, si morde le mani e soffre delle proprie decisioni, tuttavia il suo malessere è tale da non consentirle di dire sì. Viceversa, ella stessa potrebbe pensare male di me perché ho accettato immediatamente il no, mostrandomi arrendevole. Il cane comincerebbe a mordersi la coda e noi, amandoci, finiremmo col non fare incontrare mai le nostre labbra.

Dunque: giunga un inno di gloria a tutti coloro che sono in grado di non parlare e non scrivere perché agiscono, essendo azione ogni loro pensiero! Io non ne sono capace e non posso fare altro che invidiarne la superba natura.


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