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Parola
Impazientito, andò a farsi una
doccia calda, con i cui vapori si dilettò per più di venti minuti. Altrettanto
comodamente fece colazione. Poi aperse l’armadio della camera da letto, si
soffermò a meditare su quale sarebbe stato il parere della moglie e fu certo di
dover indossare un bel vestito blu, con camicia bianca e cravatta rossa. Gli
occhi gli si riempirono di lacrime, rise della propria emotività e seguitò a
vestirsi. Alle nove e trenta, Augusto Pandossa, ben vestito e profumato, era
già sotto casa ad attendere che l’autobus passasse a prelevarlo. Molto di rado,
si metteva alla guida della propria autovettura. L’autobus gli permetteva di
leggere e meditare, benché gli toccasse farlo in mezzo alla calca. Dopo avere
atteso per un quarto d’ora, senza vedere alcun mezzo pubblico, vide arrivare
dall’angolo alla sua sinistra un’utilitaria con a bordo dei ragazzi e il cui
autista pigiava all’impazzata il clacson. Il suono era diretto proprio a lui.
Uno dei ragazzi, infatti, sporgendosi dal finestrino gli urlò allegramente:
<<Professore! Salga su! La accompagniamo noi!>>. L’autovettura gli
si fermò accanto.
Pandossa, per la seconda volta,
quella mattina, si sentì pungere dal batticuore.
I suoi alunni del quinto anno
avevano marinato la scuola per seguirlo. I ragazzi gli fecero subito posto sul
sedile anteriore ed egli non esitò ad occuparlo né ad assumere lo stile del
compagnone. Il ragazzo che stava alla guida ripartì facendo sgommare le ruote.
Il professore gli diede il cosiddetto cinque, oltre a qualche consiglio sulla
guida sportiva, facendo esplodere nell’abitacolo un entusiasmo frenetico.
Un’alunna ancora diciassettenne gli disse: <<Prof, lei è troppo
fresco!>>. Il professore ruotò il capo verso di lei, aggrottò comicamente
le sopracciglia e la redarguì paternamente: <<Paola, fresco non significa
un bel niente! Ragazzi miei, dovete riformare il vostro codice. Poi, c’è da
dire che non mi sento fresco. Beh, a pensarci bene, stamani, forse, un po’
fresco sono. Comunque, ne riparleremo in classe. È un bel principio di
discussione.>>. Un altro ragazzo ribadì: <<Prof, se ne faccia una
ragione! Lei è troppo fresco.>>. Pandossa, che in materia di linguaggio
non cedeva neppure una virgola, aggiunse: <<Allora, ragazzi, può anche
starmi bene l’aggettivo. Però, intendiamoci almeno sul significato di
fresco!>>. Il ragazzo che stava alla guida e che fino a quel momento non
aveva partecipato alla discussione, disse: <<Fresco è un tipo
ok!>>. Ancora una volta Pandossa, che, in pratica, tra una battuta e
l’altra, stava offrendo indirettamente agli studenti una lezione preziosa sul
rapporto tra significante e significato intervenne: <<E che tipo sarebbe
un tipo ok? Ragazzi, attenzione! Il linguaggio ha delle funzioni precise. Ne
abbiamo parlato più volte. Insomma, non potete dire a qualcuno che è un tipo ok
o fresco, se poi non siete d’accordo sul significato!>>.
Paola, pur essendo la più giovane
del gruppo, appariva come la più attiva e interessata: <<Prof, un tipo
fresco è uno che sta dentro le situazioni, che c’ha sempre la risposta pronta
perché sa dove mettere le mani; insomma, uno è fresco, se non cade mai dalle
nuvole, se non è noioso.>>
Pandossa sembrò soddisfatto, ma
gli toccò ammonire la studentessa: <<Paola, adesso ci siamo, ma non
ripetere mai più “c’ha”!>>.
La ragazza, imbarazzata, si
affrettò a correggere il tiro: <<Mi scusi, prof!>>.
<<Eh, no>> fece il
professore <<non devi chiedere scusa a me, ma a te stessa!>>.
<<Io lo sapevo!>>
soggiunse Giovanni, l’altro ragazzo seduto accanto a Paola <<Quando uno è
fresco è fresco. Punto.>>
Molto premuroso, l’autista, si
rivolse al professore cambiando argomento: <<Spero che non sia troppo
tardi per il convegno. Siamo arrivati, ma sono già le dieci e dieci.>>.
<<Beata ingenuità!>>
lo rassicurò il professore <<Sappi, mio caro, che nessun convegno è mai
cominciato in orario! Vedrai! Siamo i primi…o tra i primi.>>.
Parcheggiata l’autovettura, la
strana comitiva s’avviò verso l’aula magna dell’università, che, in effetti,
era ancora semivuota. Pandossa cercò il cartellino che recasse il suo nome sul
banco dei relatori e prese posto da solo, tra carteggi pergamenati ed
elegantemente rifiniti e depliant col marchio dell’università in cui si faceva
il resoconto pubblicitario dell’evento e si garantivano i crediti formativi
agli iscritti. Ne esaminò il contenuto rapidamente per poi allontanare tutto
quel materiale dal proprio spazio con un gesto netto della mano. Frattanto, gli
si fece incontro il collega ed ex compagno di studi che lo aveva voluto quale
relatore. Si abbracciarono, si scambiarono qualche parola di sincero affetto e
continuarono a parlottare anche durante i primi interventi degli altri
relatori, sotto lo sguardo sospetto del moderatore, che sicuramente non gradiva
il brusio di sottofondo. L’intervento di Augusto Pandossa sarebbe stato
l’ultimo tra quelli previsti per la mattina. Il professore attese
sonnecchiando.
Verso le tredici, il moderatore
lo interpellò per dargli la parola. Furono necessari due richiami e una
gomitata dell’amico per scuoterlo dal torpore. Vincendo di colpo il sonno,
iniziò a parlare, dopo aver strizzato l’occhio ai propri studenti che
simularono un’onda di acclamazione in pieno stile da stadio e attirandosi lo
sdegno dell’intero uditorio. Pandossa si preoccupò, anzitutto, di non
deluderli: <<Joyce! Eccellente scrittore. Erudito, imponente, magistrale.
Chiunque voglia definirsi scrittore non può non aver letto Ulisse o, allo
stesso modo, Guerra e pace. Gli interventi sulle strutture e sulle
sovrastrutture, sulle forme et cetera sono stati illuminanti. Si dice... Ed è
bene che si dica. Vorrei capire, tuttavia, cosa illuminano. Mah! A che tutto
questo? Mi si chiede di esprimere un parere sulle nuove correnti letterarie.
Bene! Anzitutto, vorrei che non fossero delle correnti.>>.
Pandossa, dopo questo esordio, fece
una pausa di un paio di minuti, causando non poco disagio. I suoi fans
ridacchiarono. Gli altri uditori ne furono visibilmente imbarazzati. Non furono
da meno gli accademici. Poi, d’improvviso, ricominciò: <<Se uno è fresco
è fresco. Me l’ha detto un mio studente. Io sono un tipo fresco oppure un tipo ok.
Questo linguaggio è primitivo, originario, essenziale. Però, per esso bisogna
trovare un contesto. Ecco il compito dello scrittore! Joyce ha fatto il suo
tempo, collega. Basta! Non se ne può più. Mi dica: lei sarebbe in grado di
scrivere un romanzo alla Joyce? Non credo proprio. Non ha la faccia. Allora,
lei è del tutto fuori del contesto. Non può impiegare vent’anni della sua vita
ad analizzare un autore al quale spera disperatamente di assomigliare. È
frustrante. E inoltre, non capisco, credetemi, come si possa violentare a tal
punto la mente di uno scrittore, morto da chissà quanti anni e che, di
conseguenza, non potrà mai reggere un confronto, a tal punto, dicevo, da fare
ipotesi allucinatorie su ciò che lo ha spinto a scrivere in un modo anziché in
un altro... per poi produrre un saggio di seicento o settecento pagine di
analisi letteraria? Io la chiamerei ideazione suicidaria. Insomma, scriva un
bel romanzo! Alla Joyce, se le riesce di farlo. Può anche darsi che lo
leggeremo.>>.
Nel frattempo, l’accademico al
quale Pandossa aveva rivolto il messaggio era rosso e gonfio di rabbia, sul
punto di sbottare in invettive e improperi d’ogni genere. Il pubblico, tra le
altre cose, cominciava a divertirsi, pur trattenendosi dall’abbandonarsi alle
risa; la qual cosa indispettì oltremisura l’esperto joyceano, secondo il cui
punto di vista le nuove correnti letterarie avrebbero dovuto trarre origine da
certi classici allo scopo di reinventarli, se non, addirittura, ricostruirli.
La sua irritazione giunse al culmine, quando la voce anonima di un allievo
universitario, dal fondo dell’aula magna, gridò “bravo” a Pandossa. A quel
punto, infatti, l’illustre saggista si alzò furioso e abbandonò tra i fischi il
consesso. Dopodiché, Augusto Pandossa, come se nulla fosse accaduto, procedette
nella dissertazione, sempre in stile dissacrante e canzonatorio: <<Dal
momento che quel pover’uomo ci ha abbandonati, non abbiamo più qualcuno da
insultare.>>. Questa volta, dall’uditorio si sollevò una risata uniforme
e fragorosa. <<Signori, ci sono delle funzioni del linguaggio che,
tuttora, ci rifiutiamo di utilizzare, come se dovessimo rispettare una sorta di
comandamento della sacra letteratura. La parola è anzitutto un rumore, un suono
indecifrabile e il linguaggio è insufficiente a dirci come stanno le cose,
fuorché si sia disposti a credere che c’è una corrispondenza tra la chimica del
cervello e quello stesso linguaggio che utilizziamo con la convinzione di dire
qualcosa di sensato. Allora, a uno scrittore contemporaneo non resta che volgere
lo sguardo a tutti quei codici del tutto privi di sovrastrutture, i codici
della necessità, quelli dei giovani ignari del problema del linguaggio, quelli
dei bambini e, perché no, quello delle prostitute o dei criminali. Immaginate
una prostituta extracomunitaria che dica ad un cliente “Su, vieni, bello
porco”.>>.
A queste parole, uno degli
ascoltatori, tronfio ed insolente, balzò in piedi e interruppe il relatore:
<<Lei è un esperto di prostituzione! Dico bene, professore?>>.
Senza lasciarsi intimorire,
Pandossa rispose: <<Io predico bene e razzolo altrettanto bene. Caro
signore, se devo parlare dei linguaggi essenziali, dei rumori melodiosi della
strada, non posso esimermi dal fare indagini sul campo. Non posso rimproverare
un collega per la sua distanza da un contesto reale per poi commettere lo
stesso errore. Quindi, per me, frequentare le prostitute o i transessuali o i
criminali è un dovere da letterato.>>
***
L'esistenza è fatta di segni e
simboli, cioè di elementi che rinviano sempre a qualcos’altro e che, in quanto
tali, non rivelano né raccontano alcunché. Al contrario, si può pure ipotizzare
che essi siano veri e propri enigmi, prove d’una vicenda divina o arcana
assegnateci e imposteci. Purtroppo e per natura, ci riteniamo sempre liberi
d'interpretarli e trarne una storia, cosicché l'omissione è trasformata in
menzogna, la dimenticanza in miseria morale, il sorriso in forma di
spensieratezza. Eppure non c'è causa che corrisponda a un vero e proprio
effetto, altrimenti non avremmo beneficiato della relatività di Einstein, della
narrativa di Mann e Dostoevskij, della poesia di Rilke. Cosa ci spinge così
violentemente verso il giudizio e verso l’oscuramento dell’identità altrui?
In genere, tutti noi dichiariamo
di pretendere la verità, specie in amore, in nome del quale siamo pronti vedere
luce dappertutto, ma la verità non può che essere un fatto o la sua rappresentazione.
E un fatto e la sua rappresentazione si prestano unicamente a essere vissuti,
non già a essere riferiti e dedotti. Forse che sorridere al dolore altrui
significa disinteresse o impudenza? Forse che non farsi sentire per un
determinato periodo equivale a mostrare menefreghismo? Forse che per amare
qualcuno è necessario rinunciare a qualsiasi altro corpo?
Il no a queste domande è netto e
perentorio, allo stesso modo in cui lo è il sì. Il dominio della possibilità
non è passibile di giudizio, non si sottomette alla copula e agli aggettivi.
Mentre io scrivo e ‘oso pensare male’ d’una donna che m’abbia detto di no,
ella, molto probabilmente, si morde le mani e soffre delle proprie decisioni,
tuttavia il suo malessere è tale da non consentirle di dire sì. Viceversa, ella
stessa potrebbe pensare male di me perché ho accettato immediatamente il no,
mostrandomi arrendevole. Il cane comincerebbe a mordersi la coda e noi,
amandoci, finiremmo col non fare incontrare mai le nostre labbra.
Dunque: giunga un inno di gloria a
tutti coloro che sono in grado di non parlare e non scrivere perché agiscono,
essendo azione ogni loro pensiero! Io non ne sono capace e non posso fare altro
che invidiarne la superba natura.
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