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Meretricio
Due ore dopo, cioè intorno alle
due del mattino, Augusto Pandossa s’imbatté in una lunga schiera di prostitute
africane, davanti alle quali sfilò leggiadro, squadrandole dalla testa ai piedi
e ponendosi in sincero ascolto di tutte le avances che le donne gli facevano
per propagandare la propria mercanzia. Passando da una donna all’altra, trovò
opportuno annotare le loro espressioni su un taccuino, cosicché ne prese uno
dalla tasca interna del cappotto e, mantenendo sempre la stessa andatura, si
mise a scrivere, sempre più persuaso che da lì sarebbe nato un romanzo. Il
linguaggio, per lui, traeva origine da quelle formule agrammaticali e, nello
stesso tempo, cariche di significato, un significato netto, univoco,
sostanziale e che non lasciava adito all’incomprensione e ai dubbi. Insomma,
non c’era linguaggio più efficace e più vivo o vero di quello della strada, di
una strada al confine dell’esistenza convenzionale. <<Su, bello,
vieni!>> si disse <<sarebbe un bel titolo>>, ritrovando una
voglia di scrivere che, già da tempo, lo aveva abbandonato. Annotati gl’idiomi
di particolare rilevanza, si lasciò alle spalle le prostitute africane e
proseguì in cerca di qualche transessuale: era il suo genere preferito.
Ne trovò alcuni sui gradini di
una chiesa scomunicata e diroccata. Gliene piacque uno in particolare. Lo
conosceva. Si trattava di un brasiliano di San Paolo che aveva fatto fortuna
sui marciapiedi italiani. Il professore, tutto sommato, era un abitudinario,
specie in materia di sessualità. Non si faceva mettere le mani addosso da
chicchessia né aveva il piacere di fare nuove scoperte. Pertanto, l’incontro
gli fu particolarmente gradito. Era un cliente affezionato. Non aveva affatto
intenzione di rientrare a casa insoddisfatto e, nello stesso tempo, non era la
serata adatta al rituale della masturbazione. Fu assalito da una certa malizia,
nell’avvicinarsi a Pamela, che nonostante una temperatura prossima allo zero,
sotto un cappottino nero sbottonato, di finta pelle, indossava uno sgargiante
vestitino rosso che non le giungeva oltre gli inguini. Alta, biondastra, più
che stravolta dalla chirurgia estetica, che la rendeva turgida e abbondante,
Pamela era una vera passionaria, esemplare nella conduzione dei giochi
preliminari, esperta nel donare ai clienti ciò che essi desideravano,
quand’anche non avessero il coraggio di confessarsi. Ella, vedendo arrivare
Pandossa, lo salutò con gioia: <<Ciao, professore. A questa ora tu da me?
Bello. Noi divertiamo un po’. Ci sta tuttu u tempu che voi.>>.
<<Pamela>> esordì il
cliente <<devi cambiar nome. È troppo commerciale. Che so… Ludovica,
Lucrezia…qualcosa di nobile. Tu sei un’artista. Pamela, Samanta o Deborah sono
robaccia, nomi da puttana!>>.
<<Io soi puttana,
professore. Tu me fai sempre ridere, bello porco!>> disse il transessuale
divertito dalle facezie del cliente.
<<Al solito posto?>>
incalzò Pandossa con vivo pragmatismo.
<<Seguimi, bello
porco!>> insistette Pamela.
<<Ti seguo. Ma evita di
chiamarmi bello porco! Non è affatto eccitante né divertente.>> aggiunse
non senza risentimento il professore, che si era già posto al seguito del
transessuale.
Percorsi all’incirca cento metri
lungo il bastione laterale della chiesa, si dileguarono entrambi nell’oscurità
d’un cieco declivio, prima della cui conclusione svettava imperioso un palazzo
settecentesco. Pamela vi entrò con passo sicuro, svolgendo al buio tutte le
operazioni. Invitò il cliente a non accendere la luce e lo guidò verso un piano
seminterrato raggiungibile attraverso una modesta rampa di scale che si snodava
sulla sinistra. Varcata la soglia dell’appartamento, i due, chiusasi la porta
alle spalle, si affrettarono a baciarsi. Pamela non era solita concedersi fino
a tal punto ai clienti, ma Pandossa aveva un che di speciale, meritava
un’intimità unica, tale da oltrepassare le barriere della merceologia.
Pandossa, per converso, considerava quei baci come autentiche prove di apertura
a quella sessualità ignota, trasgressiva e rischiosa, che, dalla morte della
moglie in poi, aveva segnato gli unici veri momenti di piacere.
Profittando del momento in cui il
cliente si accingeva a togliersi i pantaloni, il transessuale si diresse verso
la tv, scelse un dvd e lo infilò nel lettore. Poco dopo, comparve sullo schermo
una scena orgiastica in cui non si capiva, di fatto, chi avesse parte attiva e
chi passiva. Donne con donne. Uomini con uomini. Donne con uomini. E così via
in intrecci rocamboleschi. Pandossa lanciò un’occhiataccia allarmata al video
per poi rimproverare Pamela: <<Pamela, mi deludi. Dovresti sapere ormai
che non tollero queste orrende visioni. Mi conosci da due anni. Grazie a Dio,
ho una discreta autonomia di pensiero. È fin troppo sgradevole per me pensare
di dover ricorrere alla fantasia altrui per arricchire la mia.>>.
Il transessuale se ne imbarazzò e
rispose sommessamente: <<Oh, meo professore, scusame!>>.
Ma era già troppo tardi. Augusto
Pandossa, un uomo che, nella vita, non imboccava mai la cosiddetta via di
mezzo, stava già per rivestirsi, lasciando Pamela esterrefatta, con
un’espressione da tonta, incapace di fare qualsiasi cosa che fosse utile a
trattenere il cliente. Il professore, in pochi istanti, era già più che pronto
a pagare e filare via. E così fu. Senza indulgere in convenevoli, che gli
sembrava fossero alquanto ridicoli e tali da sminuire ciò che per lui era una
professione e non un semplice mestiere, consegnò al transessuale circa quaranta
euro, cioè una quota ridotta e da lui stesso stimata per l’incompleta
prestazione, e s’incamminò alla volta di casa.
Non fece altre soste. Alle tre e
trenta, infatti, aveva già indossato il pigiama per abbandonarsi alle mollezze
della notte domestica. Accese la tv e la sintonizzò sul primo documentario
incontrato nel breve percorso di zapping; dopodiché, affondò il viso nel
guanciale e si lasciò prendere dal sonno. Il giorno successivo, in pratica
quello già iniziato, sarebbe stato libero dalla scuola. Dunque, non si
preoccupò neppure dell’orario. Dormì beatamente per quattr’ore. Alle otto del
mattino, infatti, aveva già tra le mani una tazza di caffè, che sorseggiò
lentamente davanti alla finestra, lo sguardo totalmente perso nell’estensione
della strada che si dispiegava dabbasso e, a quell’ora, brulicava di
autovetture e lavoratori frettolosi. Di colpo si distaccò dal vetro, cui
sembrava incollato, e s’incupì, avendo ricordato fulmineamente di aver promesso
a un collega dell’università di fare da relatore ad un convegno che avrebbe
avuto inizio proprio alle dieci di quella mattina.
<<Ecco perché sono libero
da scuola! Non ci voleva. Per quale ragione gli ho detto di sì? Non è da me.
Che posso inventare? Vediamo un po’.>> borbottò.
Si guardò attorno, come se dal
mobilio potesse giungergli un suggerimento e decise che non sarebbe stato il
caso di disertare il convegno. In sostanza, pensò, chi lo aveva invitato era
persona cara, uno studioso stimabile. Bisognava soccombere, anche se non aveva
preparato alcunché: né uno studio né, tanto meno, qualcosa di scritto da
mettere agli atti. <<Se mi hanno invitato, basterà loro il mio punto di
vista. Il guaio è che non ho un punto di vista sulle correnti letterarie
contemporanee. Posso sempre discutere di come vorrei che fossero queste
correnti. Bene!>> commentò tra sé.
***
Siamo sempre sul punto di dire di
sì allo sconosciuto, a chi possa sorprenderci all’interno d’una stanza buia,
disadorna e al centro della quale resteremmo immobili, muti e remissivi,
cosicché la nostra incapacità di nominare le parti d’un corpo e il suo
possessore, per quella volta, non sarebbe considerata paura. Nell’estraneità e,
soprattutto, nella remissività, noi saremmo simili a dei sovrani medievali, impietosi
e avidi nell’amplesso, ma certi di avere ricevuto ruolo e opportunità per
volontà divina. Lo stare in piedi equivarrebbe infatti all’assidersi sul trono d’una
profezia che ci ha insidiati e tormentati a lungo ovverosia una sorta di
rivalsa.
Nell’oscurità d’una masseria
abbandonata, che diciamo di aver
raggiunta per caso, girando a zonzo in un tardo pomeriggio di noia, ci
disponiamo all’ascolto del calpestio, che fino al giorno prima sarebbe stato
solo un rumore, ma che adesso è sussurrio eccitante: sembra allora che,
tutt’intorno, alberi, vento, uccelli, formiche, mosche e finanche le pietre o
la stessa terra entrino dentro di noi con una marcia trionfale orchestrata dai
migliori strateghi ateniesi e spartani. Fingiamo di voler capire, ma sappiamo
che non è utile farlo. Ci sentiamo tirare per un lembo della nostra maglia, che
si stacca dal bacino dov’era stata fissata per compostezza. Dal nostro grembo
apprendiamo che qualcuno è con noi, scorre su di noi in turgore e umidore.
Continuiamo a resistere all’istinto di reagire perché per tutta la vita non
abbiamo preteso altro che questa passività infinita o, diversamente, una certa
occasione d’abulia e ci ritroviamo denudati o discinti dalla vita in giù, senza
che sia stato necessario inventare le metamorfosi dell’esitazione e del rinvio.
È questo il punto in cui afferriamo l’altro per portarlo a noi e misurarne
l’appagamento e l’orgasmo. L’uno stretto all’altra, vogliamo solo accertarci
che saremo in grado di ripetere pedissequamente ogni gesto per un nuovo
appuntamento che, nostro malgrado, non possiamo fissare. Deve accadere e noi
possiamo solo sperare.
Desiderarsi e amarsi è un po’
come avere la fede granitica e spossante dei mistici, la visione messianica dei
profeti martiri, la penetrante intuizione dei mentori omerici, che, non a caso,
erano ciechi.
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