venerdì 29 novembre 2019


5
Meretricio


Due ore dopo, cioè intorno alle due del mattino, Augusto Pandossa s’imbatté in una lunga schiera di prostitute africane, davanti alle quali sfilò leggiadro, squadrandole dalla testa ai piedi e ponendosi in sincero ascolto di tutte le avances che le donne gli facevano per propagandare la propria mercanzia. Passando da una donna all’altra, trovò opportuno annotare le loro espressioni su un taccuino, cosicché ne prese uno dalla tasca interna del cappotto e, mantenendo sempre la stessa andatura, si mise a scrivere, sempre più persuaso che da lì sarebbe nato un romanzo. Il linguaggio, per lui, traeva origine da quelle formule agrammaticali e, nello stesso tempo, cariche di significato, un significato netto, univoco, sostanziale e che non lasciava adito all’incomprensione e ai dubbi. Insomma, non c’era linguaggio più efficace e più vivo o vero di quello della strada, di una strada al confine dell’esistenza convenzionale. <<Su, bello, vieni!>> si disse <<sarebbe un bel titolo>>, ritrovando una voglia di scrivere che, già da tempo, lo aveva abbandonato. Annotati gl’idiomi di particolare rilevanza, si lasciò alle spalle le prostitute africane e proseguì in cerca di qualche transessuale: era il suo genere preferito.

Ne trovò alcuni sui gradini di una chiesa scomunicata e diroccata. Gliene piacque uno in particolare. Lo conosceva. Si trattava di un brasiliano di San Paolo che aveva fatto fortuna sui marciapiedi italiani. Il professore, tutto sommato, era un abitudinario, specie in materia di sessualità. Non si faceva mettere le mani addosso da chicchessia né aveva il piacere di fare nuove scoperte. Pertanto, l’incontro gli fu particolarmente gradito. Era un cliente affezionato. Non aveva affatto intenzione di rientrare a casa insoddisfatto e, nello stesso tempo, non era la serata adatta al rituale della masturbazione. Fu assalito da una certa malizia, nell’avvicinarsi a Pamela, che nonostante una temperatura prossima allo zero, sotto un cappottino nero sbottonato, di finta pelle, indossava uno sgargiante vestitino rosso che non le giungeva oltre gli inguini. Alta, biondastra, più che stravolta dalla chirurgia estetica, che la rendeva turgida e abbondante, Pamela era una vera passionaria, esemplare nella conduzione dei giochi preliminari, esperta nel donare ai clienti ciò che essi desideravano, quand’anche non avessero il coraggio di confessarsi. Ella, vedendo arrivare Pandossa, lo salutò con gioia: <<Ciao, professore. A questa ora tu da me? Bello. Noi divertiamo un po’. Ci sta tuttu u tempu che voi.>>.
<<Pamela>> esordì il cliente <<devi cambiar nome. È troppo commerciale. Che so… Ludovica, Lucrezia…qualcosa di nobile. Tu sei un’artista. Pamela, Samanta o Deborah sono robaccia, nomi da puttana!>>.
<<Io soi puttana, professore. Tu me fai sempre ridere, bello porco!>> disse il transessuale divertito dalle facezie del cliente.
<<Al solito posto?>> incalzò Pandossa con vivo pragmatismo.
<<Seguimi, bello porco!>> insistette Pamela.
<<Ti seguo. Ma evita di chiamarmi bello porco! Non è affatto eccitante né divertente.>> aggiunse non senza risentimento il professore, che si era già posto al seguito del transessuale.

Percorsi all’incirca cento metri lungo il bastione laterale della chiesa, si dileguarono entrambi nell’oscurità d’un cieco declivio, prima della cui conclusione svettava imperioso un palazzo settecentesco. Pamela vi entrò con passo sicuro, svolgendo al buio tutte le operazioni. Invitò il cliente a non accendere la luce e lo guidò verso un piano seminterrato raggiungibile attraverso una modesta rampa di scale che si snodava sulla sinistra. Varcata la soglia dell’appartamento, i due, chiusasi la porta alle spalle, si affrettarono a baciarsi. Pamela non era solita concedersi fino a tal punto ai clienti, ma Pandossa aveva un che di speciale, meritava un’intimità unica, tale da oltrepassare le barriere della merceologia. Pandossa, per converso, considerava quei baci come autentiche prove di apertura a quella sessualità ignota, trasgressiva e rischiosa, che, dalla morte della moglie in poi, aveva segnato gli unici veri momenti di piacere.

Profittando del momento in cui il cliente si accingeva a togliersi i pantaloni, il transessuale si diresse verso la tv, scelse un dvd e lo infilò nel lettore. Poco dopo, comparve sullo schermo una scena orgiastica in cui non si capiva, di fatto, chi avesse parte attiva e chi passiva. Donne con donne. Uomini con uomini. Donne con uomini. E così via in intrecci rocamboleschi. Pandossa lanciò un’occhiataccia allarmata al video per poi rimproverare Pamela: <<Pamela, mi deludi. Dovresti sapere ormai che non tollero queste orrende visioni. Mi conosci da due anni. Grazie a Dio, ho una discreta autonomia di pensiero. È fin troppo sgradevole per me pensare di dover ricorrere alla fantasia altrui per arricchire la mia.>>.

Il transessuale se ne imbarazzò e rispose sommessamente: <<Oh, meo professore, scusame!>>.

Ma era già troppo tardi. Augusto Pandossa, un uomo che, nella vita, non imboccava mai la cosiddetta via di mezzo, stava già per rivestirsi, lasciando Pamela esterrefatta, con un’espressione da tonta, incapace di fare qualsiasi cosa che fosse utile a trattenere il cliente. Il professore, in pochi istanti, era già più che pronto a pagare e filare via. E così fu. Senza indulgere in convenevoli, che gli sembrava fossero alquanto ridicoli e tali da sminuire ciò che per lui era una professione e non un semplice mestiere, consegnò al transessuale circa quaranta euro, cioè una quota ridotta e da lui stesso stimata per l’incompleta prestazione, e s’incamminò alla volta di casa.

Non fece altre soste. Alle tre e trenta, infatti, aveva già indossato il pigiama per abbandonarsi alle mollezze della notte domestica. Accese la tv e la sintonizzò sul primo documentario incontrato nel breve percorso di zapping; dopodiché, affondò il viso nel guanciale e si lasciò prendere dal sonno. Il giorno successivo, in pratica quello già iniziato, sarebbe stato libero dalla scuola. Dunque, non si preoccupò neppure dell’orario. Dormì beatamente per quattr’ore. Alle otto del mattino, infatti, aveva già tra le mani una tazza di caffè, che sorseggiò lentamente davanti alla finestra, lo sguardo totalmente perso nell’estensione della strada che si dispiegava dabbasso e, a quell’ora, brulicava di autovetture e lavoratori frettolosi. Di colpo si distaccò dal vetro, cui sembrava incollato, e s’incupì, avendo ricordato fulmineamente di aver promesso a un collega dell’università di fare da relatore ad un convegno che avrebbe avuto inizio proprio alle dieci di quella mattina.
<<Ecco perché sono libero da scuola! Non ci voleva. Per quale ragione gli ho detto di sì? Non è da me. Che posso inventare? Vediamo un po’.>> borbottò.

Si guardò attorno, come se dal mobilio potesse giungergli un suggerimento e decise che non sarebbe stato il caso di disertare il convegno. In sostanza, pensò, chi lo aveva invitato era persona cara, uno studioso stimabile. Bisognava soccombere, anche se non aveva preparato alcunché: né uno studio né, tanto meno, qualcosa di scritto da mettere agli atti. <<Se mi hanno invitato, basterà loro il mio punto di vista. Il guaio è che non ho un punto di vista sulle correnti letterarie contemporanee. Posso sempre discutere di come vorrei che fossero queste correnti. Bene!>> commentò tra sé.

***


Siamo sempre sul punto di dire di sì allo sconosciuto, a chi possa sorprenderci all’interno d’una stanza buia, disadorna e al centro della quale resteremmo immobili, muti e remissivi, cosicché la nostra incapacità di nominare le parti d’un corpo e il suo possessore, per quella volta, non sarebbe considerata paura. Nell’estraneità e, soprattutto, nella remissività, noi saremmo simili a dei sovrani medievali, impietosi e avidi nell’amplesso, ma certi di avere ricevuto ruolo e opportunità per volontà divina. Lo stare in piedi equivarrebbe infatti all’assidersi sul trono d’una profezia che ci ha insidiati e tormentati a lungo ovverosia una sorta di rivalsa.

Nell’oscurità d’una masseria abbandonata, che diciamo di   aver raggiunta per caso, girando a zonzo in un tardo pomeriggio di noia, ci disponiamo all’ascolto del calpestio, che fino al giorno prima sarebbe stato solo un rumore, ma che adesso è sussurrio eccitante: sembra allora che, tutt’intorno, alberi, vento, uccelli, formiche, mosche e finanche le pietre o la stessa terra entrino dentro di noi con una marcia trionfale orchestrata dai migliori strateghi ateniesi e spartani. Fingiamo di voler capire, ma sappiamo che non è utile farlo. Ci sentiamo tirare per un lembo della nostra maglia, che si stacca dal bacino dov’era stata fissata per compostezza. Dal nostro grembo apprendiamo che qualcuno è con noi, scorre su di noi in turgore e umidore. Continuiamo a resistere all’istinto di reagire perché per tutta la vita non abbiamo preteso altro che questa passività infinita o, diversamente, una certa occasione d’abulia e ci ritroviamo denudati o discinti dalla vita in giù, senza che sia stato necessario inventare le metamorfosi dell’esitazione e del rinvio. È questo il punto in cui afferriamo l’altro per portarlo a noi e misurarne l’appagamento e l’orgasmo. L’uno stretto all’altra, vogliamo solo accertarci che saremo in grado di ripetere pedissequamente ogni gesto per un nuovo appuntamento che, nostro malgrado, non possiamo fissare. Deve accadere e noi possiamo solo sperare.

Desiderarsi e amarsi è un po’ come avere la fede granitica e spossante dei mistici, la visione messianica dei profeti martiri, la penetrante intuizione dei mentori omerici, che, non a caso, erano ciechi.

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