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Rumore
Quella sera, il professore, le
mani sprofondate nelle tasche laterali del cappotto, si addentrò nei sordidi
vicoli della città in cerca d’una qualche compagnia che potesse o sottrarlo
alla solitudine, una solitudine che, di rado, gli pesava al tal punto da
stanarlo da casa, o infondergli la voglia di scrivere qualcosa di narrativo.
Era piuttosto perplesso circa lo scopo dell’uscita serale: prostitute,
transessuali, barboni, criminali e quant’altro gli offriva la notte erano
personaggi che lo interessavano portentosamente, ne esaltavano l’estro, tanto
che egli li considerava elementi di decoro e simboli di elevazione d’ogni
società. Essi si collocavano al confine della razionalità urbana e garantivano
la sussistenza dell’inesauribile e stimolante relazione tra l’uomo e il limite
reale.
Per Augusto Pandossa, una
prostituta autentica e consapevole aveva una dignità poetica, si esponeva
coraggiosamente al rischio che la natura umana comporta perché lo accoglieva
interamente, essendo tutt’altro che frivola o lasciva o immorale. Sullo stesso
piano erano da collocare gli altri personaggi inquieti ed inquietanti, che
costituivano un museo itinerante d’un’arte sempre più ricca e presente.
Il freddo penetrante della notte
non lo turbava affatto. Col bavero del cappotto alzato fino al mento,
s’avanzava sull’asfalto dissestato delle stradine buie, maleodoranti, ricolme
di spazzatura e di cui conosceva a malapena gli sbocchi. Evitando attentamente
di farsi investire dalla luce dei lampioni, così da privare la vista di quei
dettagli che avrebbero indebolito sicuramente la sua curiosità, camminava
rasente i muri, con passo apparentemente molle e svogliato: si trattava d’una
falcata d’attesa, sciolta da obiettivi e tappe. In fondo a una delle viuzze,
trovò un muro di tufi a sbarramento, sotto il quale una decina di gatti erano
impegnati a smembrare i sacchetti della spazzatura. Si appiattò dietro uno
stipite sporgente e trovò diletto nel metterli in fuga con un movimento
congiunto delle labbra e dei denti che produsse un suono soffocato e, insieme,
acuto. Gli animali fuggirono a raggiera, mentre il professore, emettendo
sospiri e brontolii di soddisfazione, si addossò alla parete, tirò giù la
cerniera dei pantaloni e alleggerì la vescica. Gli si appressò un tizio, ma
egli, imperturbabile, finì di fare pipì senza ansia né frenesia. Sull’angolo
contro il quale s’era piazzato il professore si proiettò un’ombra fiacca e
indefinita dalla quale si sollevò un’ingiunzione. Il destinatario si sarebbe
dovuto voltare. Con sorprendente calma, Augusto Pandossa mostrò il volto
all’uomo minaccioso, ma non ne fu affatto intimorito. Era un trentenne di
altezza media, con radi capelli untuosi, la barbetta sforacchiata e sparsa a
chiazze sul volto, puzzava terribilmente di vino ed era paurosamente sdentato.
Intimò alla presunta vittima di consegnargli tutto il denaro. Il professore gli
sorrise, gli diede una pacca sulla spalla, lo scansò, rimise le mani in tasca e
lemme lemme si allontanò.
L’uomo, che, di certo, non era
abituato ad avventori così disincantati, esitò un bel po’, grattandosi il capo,
prima di decidersi a inseguire il bottino. Un minuto dopo, infatti, afferrò una
bottiglia di birra vuota, la ruppe contro il muro tenendola per il collo e si
mise alle calcagna del professore, il quale, nonostante le avvisaglie di
pericolo, non aveva per niente tentato la fuga. Accelerando il passo, il
criminale non faticò ad essergli alle costole per minacciarlo nuovamente.
Pandossa, questa volta, arrestò ogni movimento e, prima di girarsi ad
affrontare il nemico, rimase per qualche secondo immobile. Di scatto, con un’elegante
rotazione in senso orario del piede destro, facendo leva sul tallone del piede
sinistro, piantò addosso al tizio uno sguardo inespressivo ed inattaccabile per
poi colpirlo sul naso con un pugno. L’aggressore, trasformatosi in vittima, con
le mani a giumella, si coperse il naso sanguinante e si appoggiò al vicino
muretto per evitare di stramazzare al suolo. Il professore lo osservò con
schiacciante indifferenza, senza parlare e senza allontanarsi da lui. Anzi,
poco dopo, gli allungò dei fazzoletti affinché potesse tamponare la fuoriuscita
del sangue. Quindi, si massaggiò la mano destra e si decise a rivolgere la
parola al nemico: <<Birbantello, mi hai fatto male. La mia mano destra è
indolenzita. Non ti hanno insegnato che bisogna rispettare gli
anziani?>>.
Il tizio, quantunque impegnato a
reggersi il naso, stralunato e incredulo, alzò lo sguardo sul professore, ma
non riuscì a spiccicare neppure una parola. Pandossa, con la solita
agghiacciante disinvoltura, proseguì: <<Suvvia, alzati e fammi vedere in
che condizioni sei! Io ho rispetto per il nemico e, di conseguenza, non posso
non riconoscerti l’onore delle armi. Per questa volta, ti è andata male. Ti
rifarai la prossima volta. Adesso, è il caso che tu mi faccia controllare il
naso perché continua a sputare sangue.>>.
<<Senti un po’>>
disse il ladruncolo in preda ai capogiri <<perché non vai a farti
fottere?>>.
<<Mi sarei fatto fottere
con piacere, se tu non mi avessi rotto i coglioni!>> rispose Pandossa
beffardo e, guardando l’orologio, aggiunse: <<E sarei ancora in tempo,
ma… non posso lasciarti qui a sanguinare. Quindi, non perdiamo altro tempo,
altrimenti mi fai agitare sul serio! Su, da bravo, fatti aiutare!>>.
A sentire queste ultime parole, il trentenne, ormai bell’e
rimbambito, accettò il braccio offertogli e si mise in piedi. I due si
avvicinarono lentamente ad un lampione, sotto il quale il professore infilò
nelle narici della propria vittima due piccoli involti strappati da un
fazzoletto. Da ultimo, gli strinse la mano, gli lasciò venti euro e se ne andò.
***
Bisogna imparare a vedere la
mobilità incessante delle cose, la natura riflettente d’una pozza d’acqua, la
direzione d’uno dei tanti rami sporgenti d’un albero di limoni, le forme
lasciate dalle impronte sugli specchi, la danza delle somiglianze tra coloro
che incontriamo per strada, i modi, figurati o espliciti, con cui gli uomini
denunciano o nascondono la propria sofferenza, bisogna imparare tutto questo e
tanto altro ancora per potere riconoscere che l’eccitazione d’un corpo è
dedicata a noi. In pratica, bisogna imparare a tenersi ai margini di quei
giardini dove passeggiano signore oziose e signori impettiti e che si
esercitano instancabilmente nell’arte della privazione, spacciandola per virtù.
L’uomo e la donna dabbene o
incanagliti, molto probabilmente, esibiscono cinismo e pazienza quali
competenze o richiami alla saggezza, raccontano con disinvoltura che la nudità
è scontata. A loro dire, coloro che se la concedono e se la scambiano in tutte
le maniere possibili sono ingenui, tuttavia coloro che non temono d’essere
ingenui sanno far l’amore sui bordi delle antiche fontane, anche in pieno
giorno e senza che i curiosi se n’accorgano, perché sono nati per fluttuare tra
i mondi dell’assenza. Le loro bocche non potranno mai nominare la morte o la
noia, impegnate, come sono, a esplorare piedi, gambe, cosce, pudende, grembi,
seni, guance e altre bocche. Per loro, esiste solo il tempo dell’attesa, che giunge
sempre in ritardo.
Basterebbe che ci si unisse
bestialmente sull’antica pietra, quella dei primi rituali iniziatici, per
scoprire che l’unione è fatta per chi sa vendicarsi di sé stesso e della
propria presunzione. Oltre il giaciglio, apparentemente ruvido e inospite, ci
si ritrova in un sentiero assolato e non si avverte la canicola, allo stesso
modo in cui non si sentirebbe il freddo delle sere invernali e solitarie: lo
sguardo basso, un sorriso velato, si parlotta, si mugugna, si balbetta qualcosa,
si canticchia, raccontando al vento ciò che è stato e ciò che sarà. Quelle mani
stringeranno ancora quei glutei: uomini e donne finiranno coll’avere certezza
di cose sperate; sulle prime ne saranno meravigliati e non saranno in grado di
parlarne neppure con sé stessi, tuttavia, a poco a poco, capiranno che nessun
suono tornerà più indietro a punire la loro lingua, come fossero parti del
commiato d’una poesia classica
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