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Sensualità
Sensualità
Nenia di Sara Morghese |
La sua mano scorreva garbatamente lungo tutto il corpo, dalla fronte, sulla quale si soffermava a picchiettare la pelle corrugata a guisa di amorevole massaggio, alle gambe, che possedeva in una stretta avida e, nello stesso tempo, solenne. Si moveva con studiata accuratezza, cosicché l’itinerario della carezza si compiva in armonia, non già con la verticale linearità di chi voglia frettolosamente coprire di sé le pudende, bensì con la saggezza consumata di chi sa di non dover privare l’amante d’alcun piacere o, in altre parole, di non poter trascurare alcuna parte di quanto gli è offerto in dono. Così, giunta sul collo, la mano si slargava aderendo perfettamente a esso e puntando le dita sul mento. Mai troppo licenziosa, strisciando verso il basso, col dorso effettuava un movimento circolare intorno all’areola dell’uno e dell’altro dei capezzoli, senza invaderli o stropicciarli. Tra sfioramenti e toccamenti, risaliva per incontrare la gentile muscolatura del braccio. A quel punto, tornava indietro seguendo un percorso diverso: attraverso l’ascella, che baciava, prima di lasciarla, arrivava al fianco, su cui giocherellava pizzicandone le carni. In seguito, indice e medio, uniti, tratteggiavano il confine immaginario tra il basso addome e la peluria pelvica, mantenendo sempre una distanza minima dai genitali. Intorno all’inguine, le cinque dita tornavano ad essere compatte e si chiudevano sull’interno coscia, provocando, per esplicita espressione della volontà, un’eccitante mescolanza di piacere e dolore che si estendeva fino al gluteo, sul quale si ripeteva la stessa pratica erotica. All’altezza del ginocchio, la luce giallognola dell’abat-jour investiva una piccola porzione della mano, le falangette, facendone spiccare il rosso rubino delle unghie, che, poco dopo, si sarebbe nascosto in un groviglio di peli.
Tutt’intorno, il mobilio antico e tarlato sembrava appiccicato alle pareti per coprire le maleodoranti macchie di muffa. Dal tetto pendeva, retta da due fili, una lampada di sessanta watt fulminata da anni. La stanza era quadrata, sempre fredda per via dell’umidità, disadorna e disarmonica in tutti gli elementi: la porta ridipinta più volte, a strati sovrapposti, d’un grigio scuro; lo scrittoio era fatto d’un legno truciolare marrone chiaro che contrastava nettamente col marrone scuro dell’armadio ed era collocato accanto alla porta, tanto da limitarne l’apertura; qua e là, sparsi sul pavimento, indumenti ammonticchiati. Al di sopra del capezzale, dominava una ricostruzione grafica dell’arte bizantina: il Cristo Pantocratore.
Di fronte al letto, a poco meno di mezzo metro da esso, le ante dell’armadio, chiudendosi, realizzavano uno specchio a misura d’uomo.
Il rosso rubino delle unghie combaciò col pene. L’immagine riflessa trasformò il movimento del colore in crescente sensualità. L’orgasmo fu rapido: ci vollero meno di due minuti. Ne seguirono ansia ed estenuazione. Il professore, reclinato il capo all’indietro, si voltò alla propria sinistra e, con sguardo spento, individuò il flacone degli ansiolitici; la qual cosa fu sufficiente a quietarlo. Poi si rivolse allo specchio, fissandolo intensamente. Alzò la mano destra e la contemplò, un po’ imbronciato. Era solito masturbarsi, dipingendo le unghie della mano di rosso rubino, un colore molto caro alla moglie, morta da una ventina d’anni. In questo modo, si sottraeva alla solitudine sessuale, soddisfatto ed orgoglioso. In genere, non si limitava a smaltare le unghie; abbelliva un intero lato del proprio corpo con ornamenti e tolettatura femminili. Per le unghie del piede destro rispettava la tinta di quelle della mano destra. Secondo lo stesso principio, toglieva i peli in tutta la parte destra del corpo. Aveva anche cucito un paio di mutande per metà femminili e per metà maschili. Rossetto e quant’altro per il make-up del viso completavano l’opera. Occorreva rievocare la figura della moglie, altrimenti non c’era modo di godere. Il contrappeso negativo gli era dato dall’incontrastabile ricordo del terribile lutto; per la donna che aveva sposato aveva nutrito una passione smodata. Dunque, viveva da solo, in una casa a pigione. E, per lo più, faceva sesso da solo.
Augusto Pandossa era un uomo di bell’aspetto, curato ed elegante, di altezza superiore alla media, magro e con una calvizie che non gli impediva di far crescere i bianchi capelli fino ad una lunghezza regale. Era taciturno ed un po’ scontroso. Mai scorbutico o inopportuno! Aveva dedicato la vita alla letteratura, senza svago né divagazioni, per anni aveva tradotto i classici greci e latini per delle edizioni scolastiche e, col tempo, complice il lutto, s’era fatto un po’ misantropo. Una delle sue massime era, grossomodo, la seguente: “l’altro di me stesso sono soprattutto io, quindi il mio primo sforzo consiste nel non essere altro da me nel momento in cui sono per l’appunto l’altro di me”. Nonostante questi pensieri, era un uomo assai semplice e che conduceva una vita altrettale.
***
Luoghi e abiti non ci appartengono fino all’esatto momento in cui, rispettivamente, lasciamo un’orma e cominciamo a sudare oppure, inciampando, cadiamo e ci accorgiamo d’uno strappo sui pantaloni. Prima che accada qualcosa di simile, uomini e cose, fatti e pensieri si presentano in sequenze e non si distinguono dal fogliame autunnale o dalla pula che un forte vento di scirocco solleva con impeto in una giornata estiva. La coreografia della nostra mollezza e della nostra gretta cecità non include quasi mai i colpi di scena o, per lo meno, non li ammette quali parti della sceneggiatura. Eppure, le gelosie d’una qualche finestra ridisegnano addosso a qualcuno porzioni di desiderio, qualcuno che non vede l’ora di lasciare un’altra orma o cadere e accorgersi d’un altro strappo.
In questo modo, ci rifiutiamo, per lo più, di confessare di aver bisogno di quel corpo, di quel corpo sconosciuto o sul quale la nostra memoria ha un potere evocativo minimo. Ne immaginiamo le contrazioni, quando si spoglia, pur affaticandoci alla ricerca dei particolari: naso piccolo e all’insù, occhi neri o verdi o, forse, d’un colore che non riconosciamo, orecchie piccole, ma non troppo e chissà quante altre cose. Sul posto di lavoro, c’interroghiamo, confidando che la persona della scrivania accanto, con la quale abbiamo trascorso ormai un paio d’anni, possa improvvisamente chiederci di seguirla nel buio magazzino dell’azienda. In palestra, tra un esercizio e l’altro, tentiamo d’essere utili a qualcuno o di far bella mostra di sagacia e umorismo, convincendoci d’essere altruisti, laddove ogni gesto è parte d’un rituale, non già d’un rituale erotico, bensì d’un rituale d’iniziazione eroica: una sola consonante genera una differenza enorme. Per strada o mentre facciamo la spesa in un grosso centro commerciale, raddrizziamo la schiena, esibiamo una smorfia di consapevolezza, pur sapendo che non siamo affatto consapevoli di qualcosa, e finiamo coll’essere cani da tartufo senza padrone né addestramento.
Spesso, alcuni di noi cercano conforto nella letteratura, ma non ne ricaviamo un granché: Dante dedicò la vita a una donna che non poté mai possedere, Petrarca non fu da meno, Leopardi s’impegnò pure a innamorarsi d’una donna vera e propria, ma di fatto non riuscì neanche in quest’impresa; se cambiamo profilo e chiamiamo in causa un Bukovskij, accostandoci a lui unicamente per la nomea e il successo di pubblico, scopriamo un autore che quasi insulta il corteggiamento e la conquista e non possiamo fare a meno di pensare che tanta rabbia provenisse da un grande disagio. Fin da piccoli, siamo stati istruiti a mentire, siamo stati costretti a non dire che vogliamo toccare e vedere. Noi sappiamo per mestiere di non dover dire che vogliamo godere e, soprattutto, sappiamo che non è prova d’eleganza o intelligenza dirlo. Se Amleto avesse fatto l’amore con Ofelia, anziché farla impazzire, molto probabilmente la tragedia sarebbe finita in commedia.
Se una domenica qualunque, andando a messa, sapessimo di dovere incontrare, qualche ora dopo, la nostra o il nostro amante, sicuramente accoglieremmo con rinnovato entusiasmo l’invito alla pratica della buona novella.
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