venerdì 22 novembre 2019

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Reputazione


S’era cimentato nella narrativa, con una raccolta di racconti e un romanzo, ma, in seguito alla pubblicazione del romanzo, che aveva riscosso notevole successo di pubblico, s’era rifiutato di prendere parte al programma di promozione preparato dalla casa editrice e da lui sottoscritto per contratto, contratto che, molto probabilmente, non aveva mai letto, ed era stato stroncato nel giro di tre mesi. In una delle rarissime interviste rilasciate a un valoroso e zelante giornalista d’un quotidiano nazionale che lo aveva inseguito per settimane aveva dichiarato, in merito al proprio rifiuto: <<Io promuovo i libri in classe, durante il ginnasio perché interpreto il ruolo dell’educatore. Già al liceo, smetto di fare il promotore, specie se ho fatto un buon lavoro negli anni precedenti. Ho, anzitutto, il dovere di aiutare gli studenti a scoprire il mondo della letteratura. Quindi, se i lettori hanno bisogno di un promotore, di qualcuno che li aiuti a scoprire il mondo della letteratura, è necessario che tornino sui banchi di scuola. Oppure si tratta di una specie di supplica? Dovrei supplicare il lettore di leggere il mio libro? Non sono sufficienti le recensioni pubblicate sui giornali? Insomma, io sono pagato per fare il professore di lettere, lei è pagato per fare le recensioni. Mi sembra che il discorso non faccia una grinza. In quanto al resto… Qual è l’altra accusa? Gioco a fare l’artista pazzo? Dicono questo di me? Tenuto conto che il gioco è sempre divertente, bisogna dire che le presentazioni dei libri sono assai noiose. Descrivere un proprio personaggio significa fare autoesaltazione; ascoltare qualcuno che lo descriva è rischioso perché sarebbe come osservare qualcuno che voglia picchiare tuo figlio. Se lei è padre, sa cosa intendo dire. Non mi guardi così! Non mi riferisco a mia figlia. Ho anche i miei personaggi da curare… Beh… Lasci perdere! Lei non è in grado di capire!>>.

Le ultime parole della dichiarazione, naturalmente, s’erano immediatamente tradotte nella cacciata metaforica del giornalista, il quale, pur pubblicando fedelmente il pezzo, non aveva di certo rassicurato i lettori sulla qualità umana dell’autore. Augusto Pandossa, in effetti, non godeva di buona reputazione; il guaio era che la requisitoria sociale contro di lui era assai debole. Uno dei suoi principali difetti per i suoi giudici, per esempio, era la vedovanza; o, meglio, non la vedovanza in quanto stato, ma la sua incapacità di riammogliarsi che ne derivava. I colleghi gli perdonavano pure l’irredimibile voglia di disertare i consigli di classe, ma non tolleravano di buon grado la sua solitudine. Di lui si raccontava che aveva il vizietto di frequentare i transessuali; ed anche in questo caso il problema stava non tanto nella diversità sessuale, che, stranamente o fintamente, veniva quasi accettata, quanto piuttosto nel fatto che egli non ne faceva mistero, tanto da rispondere nel seguente modo alla domanda impertinente di un collega che voleva ragguagli circa una diceria: <<Il transessuale rappresenta la più alta espressione della sessualità, è un lascito dell’eros greco-platonico…>>.

Un’altra abitudine che infastidiva alquanto le poche persone che gli giravano attorno era il pasto delle dodici e trenta o delle tredici e trenta, a seconda dell’orario della fine delle lezioni. Il professore soleva recarsi al bar che si trovava di fronte al liceo classico tutti i giorni lavorativi; ordinava un’insalata di lattuga, pomodoro e mozzarella, la condiva con sale, pepe, olio e aceto balsamico e la mangiava con un paio di fette di pane nero. Gli altri professori lo guardavano di sbieco, quasi con sdegno, non perché non si unisse a loro nel pranzo, ma perché era instancabilmente metodico e instancabile nel consumare tutti i giorni, da anni, lo stesso pasto. Egli sapeva di essere una specie d’osservato speciale, ma non se ne curava, talvolta ne rideva tra sé, talaltra li provocava dicendo loro: <<Per caso, gradite un po’ d’insalata?>>. All’età di sessant’anni, il professore continuava a studiare come uno studente ammodo: dedicava tre ore al giorno all’analisi dei testi, di cui ripeteva ad alta voce il contenuto appreso, per poi annotare sul quaderno di pertinenza i dati salienti. A ogni disciplina studiata assegnava, infatti, un quaderno d’appunti, sembrando sempre uno scolaretto in procinto d’essere interrogato per la chiusura del quadrimestre. Anche questa consuetudine intellettuale finiva coll’essere oggetto di discussione dei colleghi del liceo, i quali, mal sopportando il disagio dell’inferiorità culturale e non essendo disposti a piegarsi sotto il peso della scienza, lo etichettavano come studioso grigio e monotono, inadatto a fornire agli allievi gli stimoli necessari.

Nel cortile della ciarla era finita anche Eleonora Pandossa, la figlia trentenne di Augusto, un’avvenente biologa che s’era trasferita in una città costiera, a circa duecento chilometri dall’abitazione del padre, allo scopo di esercitare con successo la professione per la quale s’era laureata. Ella, sinceramente innamorata del padre e a lui devota, tornava spesso e volentieri a fargli visita. Eleonora era l’unico essere umano per il quale Augusto fosse lesto a modificare l’amato tran tran quotidiano. In presenza di lei, egli rinunciava sia ai libri sia all’insalata. Fin da un’ora prima del suo arrivo, lo si vedeva passeggiare lungo il marciapiede della fermata dell’autobus, con le mani intrecciate dietro la schiena, ben pettinato e profumato. Eleonora era l’unica donna della sua vita e lo era fin dalla morte della moglie. Augusto non aveva mai voluto turbare la crescita della figlia con altre presenze femminili. In genere, ella trascorreva due o, al più, tre giorni assieme al padre, essendo costretta a rientrare presso l’istituto di biologia marina nel quale lavorava. Padre e figlia, mano nella mano, andavano in giro per le vie della città per ore, chiacchierando, facendo shopping e ricordando la mamma, scomparsa – si diceva – per una patologia mai diagnosticata dai medici, quando la piccola Eleonora aveva solamente dodici anni.

Le male lingue avevano insinuato il dubbio pure in questa relazione d’archetipica purezza. Secondo le maldicenze, era impensabile e, quindi, inaccettabile che una giovane donna di tale bellezza vivesse tutto il proprio tempo libero a stretto contatto col padre. Augusto, uomo d’impareggiabile mansuetudine, raro esempio di saggio epicureo e, nel contempo, stoico per sopportazione, dava in escandescenze già all’idea che qualcuno potesse anche solo vagamente coprire d’onta la sua paternità. In un’occasione, aveva mollato un ceffone al collega di matematica che, volendo apparire quale uomo d’esperienza, s’era concesso uno squallido e lubrico sorrisetto ai danni di Eleonora.

***

La tendenza alla condanna di ciò che, con impertinenza e irresponsabilità, viene definito 'diverso' è la cifra sociale di un delirio semantico e religioso. La comunità civile ha bisogno di vittime per sopravvivere a sé stessa, vuole nominare il male e non c'è imputato migliore di chi si sottrae al canone o, diversamente, al matrimonio, laddove il presunto trasgressore o adultero, al contrario, anche se non sempre, appare come un riformista, uno stratega del godimento, un equilibrista, un sapiente. Gli ‘adulteri’ veri sanno impreziosirsi dell'attimo e condividere orgasmi oracolari perché stanno sempre oltre la condivisione stessa, nei luoghi in cui il mondo è fatto solo per loro: è vero, camminano su corde sospese a diversi metri dal suolo, mentre la folla, da basso, attende solo lo spettacolo della rovinosa caduta, ma ciò che essi vedono da lassù non è concesso a pavidi e pigri.

Il desiderio autentico si compie come oltraggio alla virtù comune e come atto mefistofelico. È il perfezionarsi della pura ‘infedeltà’, consiste nel tradire sé stessi per continuare ad amarsi e comincia nell'esatto momento in cui riusciamo a riconoscerci in segreto: noi e gli amanti; noi e il bacio nascosto; noi e il piacere innominabile. Il mondo ha sempre temuto gli amanti, finendo col trucidarli, ma ogni essere umano, senza farsi notare, ne ha suffragato l'eterna beatitudine.

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