venerdì 29 novembre 2019


5
Meretricio


Due ore dopo, cioè intorno alle due del mattino, Augusto Pandossa s’imbatté in una lunga schiera di prostitute africane, davanti alle quali sfilò leggiadro, squadrandole dalla testa ai piedi e ponendosi in sincero ascolto di tutte le avances che le donne gli facevano per propagandare la propria mercanzia. Passando da una donna all’altra, trovò opportuno annotare le loro espressioni su un taccuino, cosicché ne prese uno dalla tasca interna del cappotto e, mantenendo sempre la stessa andatura, si mise a scrivere, sempre più persuaso che da lì sarebbe nato un romanzo. Il linguaggio, per lui, traeva origine da quelle formule agrammaticali e, nello stesso tempo, cariche di significato, un significato netto, univoco, sostanziale e che non lasciava adito all’incomprensione e ai dubbi. Insomma, non c’era linguaggio più efficace e più vivo o vero di quello della strada, di una strada al confine dell’esistenza convenzionale. <<Su, bello, vieni!>> si disse <<sarebbe un bel titolo>>, ritrovando una voglia di scrivere che, già da tempo, lo aveva abbandonato. Annotati gl’idiomi di particolare rilevanza, si lasciò alle spalle le prostitute africane e proseguì in cerca di qualche transessuale: era il suo genere preferito.

Ne trovò alcuni sui gradini di una chiesa scomunicata e diroccata. Gliene piacque uno in particolare. Lo conosceva. Si trattava di un brasiliano di San Paolo che aveva fatto fortuna sui marciapiedi italiani. Il professore, tutto sommato, era un abitudinario, specie in materia di sessualità. Non si faceva mettere le mani addosso da chicchessia né aveva il piacere di fare nuove scoperte. Pertanto, l’incontro gli fu particolarmente gradito. Era un cliente affezionato. Non aveva affatto intenzione di rientrare a casa insoddisfatto e, nello stesso tempo, non era la serata adatta al rituale della masturbazione. Fu assalito da una certa malizia, nell’avvicinarsi a Pamela, che nonostante una temperatura prossima allo zero, sotto un cappottino nero sbottonato, di finta pelle, indossava uno sgargiante vestitino rosso che non le giungeva oltre gli inguini. Alta, biondastra, più che stravolta dalla chirurgia estetica, che la rendeva turgida e abbondante, Pamela era una vera passionaria, esemplare nella conduzione dei giochi preliminari, esperta nel donare ai clienti ciò che essi desideravano, quand’anche non avessero il coraggio di confessarsi. Ella, vedendo arrivare Pandossa, lo salutò con gioia: <<Ciao, professore. A questa ora tu da me? Bello. Noi divertiamo un po’. Ci sta tuttu u tempu che voi.>>.
<<Pamela>> esordì il cliente <<devi cambiar nome. È troppo commerciale. Che so… Ludovica, Lucrezia…qualcosa di nobile. Tu sei un’artista. Pamela, Samanta o Deborah sono robaccia, nomi da puttana!>>.
<<Io soi puttana, professore. Tu me fai sempre ridere, bello porco!>> disse il transessuale divertito dalle facezie del cliente.
<<Al solito posto?>> incalzò Pandossa con vivo pragmatismo.
<<Seguimi, bello porco!>> insistette Pamela.
<<Ti seguo. Ma evita di chiamarmi bello porco! Non è affatto eccitante né divertente.>> aggiunse non senza risentimento il professore, che si era già posto al seguito del transessuale.

Percorsi all’incirca cento metri lungo il bastione laterale della chiesa, si dileguarono entrambi nell’oscurità d’un cieco declivio, prima della cui conclusione svettava imperioso un palazzo settecentesco. Pamela vi entrò con passo sicuro, svolgendo al buio tutte le operazioni. Invitò il cliente a non accendere la luce e lo guidò verso un piano seminterrato raggiungibile attraverso una modesta rampa di scale che si snodava sulla sinistra. Varcata la soglia dell’appartamento, i due, chiusasi la porta alle spalle, si affrettarono a baciarsi. Pamela non era solita concedersi fino a tal punto ai clienti, ma Pandossa aveva un che di speciale, meritava un’intimità unica, tale da oltrepassare le barriere della merceologia. Pandossa, per converso, considerava quei baci come autentiche prove di apertura a quella sessualità ignota, trasgressiva e rischiosa, che, dalla morte della moglie in poi, aveva segnato gli unici veri momenti di piacere.

Profittando del momento in cui il cliente si accingeva a togliersi i pantaloni, il transessuale si diresse verso la tv, scelse un dvd e lo infilò nel lettore. Poco dopo, comparve sullo schermo una scena orgiastica in cui non si capiva, di fatto, chi avesse parte attiva e chi passiva. Donne con donne. Uomini con uomini. Donne con uomini. E così via in intrecci rocamboleschi. Pandossa lanciò un’occhiataccia allarmata al video per poi rimproverare Pamela: <<Pamela, mi deludi. Dovresti sapere ormai che non tollero queste orrende visioni. Mi conosci da due anni. Grazie a Dio, ho una discreta autonomia di pensiero. È fin troppo sgradevole per me pensare di dover ricorrere alla fantasia altrui per arricchire la mia.>>.

Il transessuale se ne imbarazzò e rispose sommessamente: <<Oh, meo professore, scusame!>>.

Ma era già troppo tardi. Augusto Pandossa, un uomo che, nella vita, non imboccava mai la cosiddetta via di mezzo, stava già per rivestirsi, lasciando Pamela esterrefatta, con un’espressione da tonta, incapace di fare qualsiasi cosa che fosse utile a trattenere il cliente. Il professore, in pochi istanti, era già più che pronto a pagare e filare via. E così fu. Senza indulgere in convenevoli, che gli sembrava fossero alquanto ridicoli e tali da sminuire ciò che per lui era una professione e non un semplice mestiere, consegnò al transessuale circa quaranta euro, cioè una quota ridotta e da lui stesso stimata per l’incompleta prestazione, e s’incamminò alla volta di casa.

Non fece altre soste. Alle tre e trenta, infatti, aveva già indossato il pigiama per abbandonarsi alle mollezze della notte domestica. Accese la tv e la sintonizzò sul primo documentario incontrato nel breve percorso di zapping; dopodiché, affondò il viso nel guanciale e si lasciò prendere dal sonno. Il giorno successivo, in pratica quello già iniziato, sarebbe stato libero dalla scuola. Dunque, non si preoccupò neppure dell’orario. Dormì beatamente per quattr’ore. Alle otto del mattino, infatti, aveva già tra le mani una tazza di caffè, che sorseggiò lentamente davanti alla finestra, lo sguardo totalmente perso nell’estensione della strada che si dispiegava dabbasso e, a quell’ora, brulicava di autovetture e lavoratori frettolosi. Di colpo si distaccò dal vetro, cui sembrava incollato, e s’incupì, avendo ricordato fulmineamente di aver promesso a un collega dell’università di fare da relatore ad un convegno che avrebbe avuto inizio proprio alle dieci di quella mattina.
<<Ecco perché sono libero da scuola! Non ci voleva. Per quale ragione gli ho detto di sì? Non è da me. Che posso inventare? Vediamo un po’.>> borbottò.

Si guardò attorno, come se dal mobilio potesse giungergli un suggerimento e decise che non sarebbe stato il caso di disertare il convegno. In sostanza, pensò, chi lo aveva invitato era persona cara, uno studioso stimabile. Bisognava soccombere, anche se non aveva preparato alcunché: né uno studio né, tanto meno, qualcosa di scritto da mettere agli atti. <<Se mi hanno invitato, basterà loro il mio punto di vista. Il guaio è che non ho un punto di vista sulle correnti letterarie contemporanee. Posso sempre discutere di come vorrei che fossero queste correnti. Bene!>> commentò tra sé.

***


Siamo sempre sul punto di dire di sì allo sconosciuto, a chi possa sorprenderci all’interno d’una stanza buia, disadorna e al centro della quale resteremmo immobili, muti e remissivi, cosicché la nostra incapacità di nominare le parti d’un corpo e il suo possessore, per quella volta, non sarebbe considerata paura. Nell’estraneità e, soprattutto, nella remissività, noi saremmo simili a dei sovrani medievali, impietosi e avidi nell’amplesso, ma certi di avere ricevuto ruolo e opportunità per volontà divina. Lo stare in piedi equivarrebbe infatti all’assidersi sul trono d’una profezia che ci ha insidiati e tormentati a lungo ovverosia una sorta di rivalsa.

Nell’oscurità d’una masseria abbandonata, che diciamo di   aver raggiunta per caso, girando a zonzo in un tardo pomeriggio di noia, ci disponiamo all’ascolto del calpestio, che fino al giorno prima sarebbe stato solo un rumore, ma che adesso è sussurrio eccitante: sembra allora che, tutt’intorno, alberi, vento, uccelli, formiche, mosche e finanche le pietre o la stessa terra entrino dentro di noi con una marcia trionfale orchestrata dai migliori strateghi ateniesi e spartani. Fingiamo di voler capire, ma sappiamo che non è utile farlo. Ci sentiamo tirare per un lembo della nostra maglia, che si stacca dal bacino dov’era stata fissata per compostezza. Dal nostro grembo apprendiamo che qualcuno è con noi, scorre su di noi in turgore e umidore. Continuiamo a resistere all’istinto di reagire perché per tutta la vita non abbiamo preteso altro che questa passività infinita o, diversamente, una certa occasione d’abulia e ci ritroviamo denudati o discinti dalla vita in giù, senza che sia stato necessario inventare le metamorfosi dell’esitazione e del rinvio. È questo il punto in cui afferriamo l’altro per portarlo a noi e misurarne l’appagamento e l’orgasmo. L’uno stretto all’altra, vogliamo solo accertarci che saremo in grado di ripetere pedissequamente ogni gesto per un nuovo appuntamento che, nostro malgrado, non possiamo fissare. Deve accadere e noi possiamo solo sperare.

Desiderarsi e amarsi è un po’ come avere la fede granitica e spossante dei mistici, la visione messianica dei profeti martiri, la penetrante intuizione dei mentori omerici, che, non a caso, erano ciechi.

venerdì 22 novembre 2019

4
Rumore


Quella sera, il professore, le mani sprofondate nelle tasche laterali del cappotto, si addentrò nei sordidi vicoli della città in cerca d’una qualche compagnia che potesse o sottrarlo alla solitudine, una solitudine che, di rado, gli pesava al tal punto da stanarlo da casa, o infondergli la voglia di scrivere qualcosa di narrativo. Era piuttosto perplesso circa lo scopo dell’uscita serale: prostitute, transessuali, barboni, criminali e quant’altro gli offriva la notte erano personaggi che lo interessavano portentosamente, ne esaltavano l’estro, tanto che egli li considerava elementi di decoro e simboli di elevazione d’ogni società. Essi si collocavano al confine della razionalità urbana e garantivano la sussistenza dell’inesauribile e stimolante relazione tra l’uomo e il limite reale.

Per Augusto Pandossa, una prostituta autentica e consapevole aveva una dignità poetica, si esponeva coraggiosamente al rischio che la natura umana comporta perché lo accoglieva interamente, essendo tutt’altro che frivola o lasciva o immorale. Sullo stesso piano erano da collocare gli altri personaggi inquieti ed inquietanti, che costituivano un museo itinerante d’un’arte sempre più ricca e presente.

Il freddo penetrante della notte non lo turbava affatto. Col bavero del cappotto alzato fino al mento, s’avanzava sull’asfalto dissestato delle stradine buie, maleodoranti, ricolme di spazzatura e di cui conosceva a malapena gli sbocchi. Evitando attentamente di farsi investire dalla luce dei lampioni, così da privare la vista di quei dettagli che avrebbero indebolito sicuramente la sua curiosità, camminava rasente i muri, con passo apparentemente molle e svogliato: si trattava d’una falcata d’attesa, sciolta da obiettivi e tappe. In fondo a una delle viuzze, trovò un muro di tufi a sbarramento, sotto il quale una decina di gatti erano impegnati a smembrare i sacchetti della spazzatura. Si appiattò dietro uno stipite sporgente e trovò diletto nel metterli in fuga con un movimento congiunto delle labbra e dei denti che produsse un suono soffocato e, insieme, acuto. Gli animali fuggirono a raggiera, mentre il professore, emettendo sospiri e brontolii di soddisfazione, si addossò alla parete, tirò giù la cerniera dei pantaloni e alleggerì la vescica. Gli si appressò un tizio, ma egli, imperturbabile, finì di fare pipì senza ansia né frenesia. Sull’angolo contro il quale s’era piazzato il professore si proiettò un’ombra fiacca e indefinita dalla quale si sollevò un’ingiunzione. Il destinatario si sarebbe dovuto voltare. Con sorprendente calma, Augusto Pandossa mostrò il volto all’uomo minaccioso, ma non ne fu affatto intimorito. Era un trentenne di altezza media, con radi capelli untuosi, la barbetta sforacchiata e sparsa a chiazze sul volto, puzzava terribilmente di vino ed era paurosamente sdentato. Intimò alla presunta vittima di consegnargli tutto il denaro. Il professore gli sorrise, gli diede una pacca sulla spalla, lo scansò, rimise le mani in tasca e lemme lemme si allontanò.

L’uomo, che, di certo, non era abituato ad avventori così disincantati, esitò un bel po’, grattandosi il capo, prima di decidersi a inseguire il bottino. Un minuto dopo, infatti, afferrò una bottiglia di birra vuota, la ruppe contro il muro tenendola per il collo e si mise alle calcagna del professore, il quale, nonostante le avvisaglie di pericolo, non aveva per niente tentato la fuga. Accelerando il passo, il criminale non faticò ad essergli alle costole per minacciarlo nuovamente. Pandossa, questa volta, arrestò ogni movimento e, prima di girarsi ad affrontare il nemico, rimase per qualche secondo immobile. Di scatto, con un’elegante rotazione in senso orario del piede destro, facendo leva sul tallone del piede sinistro, piantò addosso al tizio uno sguardo inespressivo ed inattaccabile per poi colpirlo sul naso con un pugno. L’aggressore, trasformatosi in vittima, con le mani a giumella, si coperse il naso sanguinante e si appoggiò al vicino muretto per evitare di stramazzare al suolo. Il professore lo osservò con schiacciante indifferenza, senza parlare e senza allontanarsi da lui. Anzi, poco dopo, gli allungò dei fazzoletti affinché potesse tamponare la fuoriuscita del sangue. Quindi, si massaggiò la mano destra e si decise a rivolgere la parola al nemico: <<Birbantello, mi hai fatto male. La mia mano destra è indolenzita. Non ti hanno insegnato che bisogna rispettare gli anziani?>>.
Il tizio, quantunque impegnato a reggersi il naso, stralunato e incredulo, alzò lo sguardo sul professore, ma non riuscì a spiccicare neppure una parola. Pandossa, con la solita agghiacciante disinvoltura, proseguì: <<Suvvia, alzati e fammi vedere in che condizioni sei! Io ho rispetto per il nemico e, di conseguenza, non posso non riconoscerti l’onore delle armi. Per questa volta, ti è andata male. Ti rifarai la prossima volta. Adesso, è il caso che tu mi faccia controllare il naso perché continua a sputare sangue.>>.

<<Senti un po’>> disse il ladruncolo in preda ai capogiri <<perché non vai a farti fottere?>>.
<<Mi sarei fatto fottere con piacere, se tu non mi avessi rotto i coglioni!>> rispose Pandossa beffardo e, guardando l’orologio, aggiunse: <<E sarei ancora in tempo, ma… non posso lasciarti qui a sanguinare. Quindi, non perdiamo altro tempo, altrimenti mi fai agitare sul serio! Su, da bravo, fatti aiutare!>>.

A sentire queste ultime parole, il trentenne, ormai bell’e rimbambito, accettò il braccio offertogli e si mise in piedi. I due si avvicinarono lentamente ad un lampione, sotto il quale il professore infilò nelle narici della propria vittima due piccoli involti strappati da un fazzoletto. Da ultimo, gli strinse la mano, gli lasciò venti euro e se ne andò.

***

Bisogna imparare a vedere la mobilità incessante delle cose, la natura riflettente d’una pozza d’acqua, la direzione d’uno dei tanti rami sporgenti d’un albero di limoni, le forme lasciate dalle impronte sugli specchi, la danza delle somiglianze tra coloro che incontriamo per strada, i modi, figurati o espliciti, con cui gli uomini denunciano o nascondono la propria sofferenza, bisogna imparare tutto questo e tanto altro ancora per potere riconoscere che l’eccitazione d’un corpo è dedicata a noi. In pratica, bisogna imparare a tenersi ai margini di quei giardini dove passeggiano signore oziose e signori impettiti e che si esercitano instancabilmente nell’arte della privazione, spacciandola per virtù.

L’uomo e la donna dabbene o incanagliti, molto probabilmente, esibiscono cinismo e pazienza quali competenze o richiami alla saggezza, raccontano con disinvoltura che la nudità è scontata. A loro dire, coloro che se la concedono e se la scambiano in tutte le maniere possibili sono ingenui, tuttavia coloro che non temono d’essere ingenui sanno far l’amore sui bordi delle antiche fontane, anche in pieno giorno e senza che i curiosi se n’accorgano, perché sono nati per fluttuare tra i mondi dell’assenza. Le loro bocche non potranno mai nominare la morte o la noia, impegnate, come sono, a esplorare piedi, gambe, cosce, pudende, grembi, seni, guance e altre bocche. Per loro, esiste solo il tempo dell’attesa, che giunge sempre in ritardo.

Basterebbe che ci si unisse bestialmente sull’antica pietra, quella dei primi rituali iniziatici, per scoprire che l’unione è fatta per chi sa vendicarsi di sé stesso e della propria presunzione. Oltre il giaciglio, apparentemente ruvido e inospite, ci si ritrova in un sentiero assolato e non si avverte la canicola, allo stesso modo in cui non si sentirebbe il freddo delle sere invernali e solitarie: lo sguardo basso, un sorriso velato, si parlotta, si mugugna, si balbetta qualcosa, si canticchia, raccontando al vento ciò che è stato e ciò che sarà. Quelle mani stringeranno ancora quei glutei: uomini e donne finiranno coll’avere certezza di cose sperate; sulle prime ne saranno meravigliati e non saranno in grado di parlarne neppure con sé stessi, tuttavia, a poco a poco, capiranno che nessun suono tornerà più indietro a punire la loro lingua, come fossero parti del commiato d’una poesia classica

3
Psicoterapia

Nenia di Sara Morghese

Non c’era diceria che lo turbasse a tal punto da indurlo alla violenza.

Di fatto, le dicerie erano parecchie, forse troppe perché il professor Pandossa passasse inosservato sotto la vigile sorveglianza delle autorità preposte, che in questi casi manifestano tutto il proprio zelo.

Una mattina, poco prima dell’inizio delle lezioni, il preside del liceo mandò un bidello in sala consiglio a chiamare il professor Pandossa.
Bidello: <<Professor Pandossa?>>
Pandossa: <<Eccomi!>>
Bidello: <<Professore, mi perdoni! Il preside vuole vederla.>>
Augusto, indifferente alla volontà del preside, rispose con gentile sollecitudine al bidello: <<Lei è una persona talmente cortese e professionale… Cosa vuole farsi perdonare da me? Non è mica colpa sua se il preside le assegna delle seccature.>>. Il bidello, esterrefatto, non comprese il sottile riferimento linguistico alla formula convenzionale de “mi perdoni!” e si limitò a ringraziare con pronta sottomissione, considerando che l’ambasciata fosse compiuta. Gli altri professori presenti dissimularono disinteresse, ma, lentamente, si riunirono in gruppuscoli d’indagine e confronto critico sulle ragioni della convocazione. Pandossa, per contro, attese il suono della campanella e si recò in aula, senza nemmeno prendere in esame la notizia comunicatagli. Alla fine della prima ora, ricomparve sulla soglia il bidello: <<Professore, mi perdoni! Forse, poco fa, mi sono espresso male. Il preside chiede di lei, vuole incontrarla. Se può andare in presidenza…>>. Ancora una volta, l’etica del letterato scrupoloso ebbe la meglio su quella dell’impiegato: <<Certamente. Posso andare in presidenza, ne ho facoltà. Ma è bene chiarire una cosa: sono stato io ad esprimermi male! Intendevo dirle che lei non ha nulla da farsi perdonare. Non occorre che mi dica “mi perdoni!”. Siamo colleghi e ci conosciamo da anni. Siamo entrambi impiegati. Anzi, se lei è d’accordo, fin da ora, possiamo usare il tu tra di noi.>>. I ragazzi, a sentire l’intervento libertario del professore esplosero in un applauso fragoroso, che egli, però, tacitò repentinamente mostrando loro il palmo della mano. Il bidello, invece, apparve subito inebetito. Rimase muto, sulla soglia dell’aula a fissare ora Augusto Pandossa ora i ragazzi. Augusto, avvedutosi dell’imbarazzo del bidello, gli andò incontro tendendogli la mano e lo ringraziò della rinnovata ambasciata. Ma, per la seconda volta, disattese l’ordine del preside. Trascorsa una buona mezz’ora, si sentì bussare alla porta dell’aula. Augusto si alzò e andò ad aprire. Gli si presentò innanzi un tipo basso e paffuto: il preside, che gli si rivolse sbuffando e con la solita voce chioccia.
Preside: <<Augusto, ti ho fatto chiamare tre volte. Possibile che tu sia sempre così intrattabile? Non cambi mai!>>
Pandossa: <<Dammi una buona ragione per cambiare!>>
Preside: (infastidito) <<Non è il momento di perdersi in chiacchiere. Dobbiamo scambiare due paroline. In privato. Possiamo andare in presidenza?>>
Pandossa: (…per il professor Pandossa, l’uso del verbo “potere” era effettivamente vincolato alla possibilità che qualcosa si verificasse, ma non esprimeva un comando né un’esortazione a che la richiesta si realizzasse. Pertanto, si dilettava con dei giochini linguistici che, di solito, irritavano l’interlocutore.) Certo, possiamo andare in presidenza. Ne abbiamo facoltà. Ma, dimmi, preside! “Dobbiamo” hai detto? È un dovere morale?>>
Preside: (…accigliato) <<Sì, è un dovere morale!>>

Il preside s’avviò verso il corridoio dell’antistante presidenza, convinto d’essere seguito dal professore, ma Pandossa, fermamente convinto, al contrario, dell’ambiguità del verbo “potere”, non si mosse. Dopo una decina di passi, il preside si voltò e, vedendo Pandossa immobile sulla soglia della porta, andò su tutte le furie.

Preside: (…urlando) <<Pandossa, cazzo! Seguimi!>>
I ragazzi cominciarono a ridacchiare e confabulare, divertiti.
Pandossa: (…con un sorriso di placidità) <<Non sono il tuo Simon Pietro, ma se mi farai pescatore di uomini…>>.

In presidenza, il preside sembrò rasserenarsi e la conversazione ebbe inizio.
Preside: (…imbarazzato, agitato, con crescente goffaggine, quasi balbettando) <<Beh, caro Augusto, bisogna rimediare ad alcune cosette. Di recente, si raccontano troppe cose sul tuo conto…sarebbe il caso di far luce su… noi ci conosciamo fin dai tempi dell’università… è il caso che la tua reputazione di studioso sia salvaguardata… tu sei il fiore all’occhiello di questo istituto… capisco che, da quando è morta tua moglie, è stato difficile… le tue frequentazioni poi sono un po’… sono persuaso che tu comprenda le ragioni di questo mio intervento…>>
Pandossa: (…rilassato e curioso, allegro) <<Sì, comprendo benissimo le ragioni di questo tuo intervento… in effetti, le mie frequentazioni sono un po’… dalla morte di mia moglie è stato difficile… è stato bello essere il fiore all’occhiello dell’istituto… è il caso che la mia reputazione di studioso sia salvaguardata… d’altronde, noi ci conosciamo fin dai tempi dell’università… è il caso di far luce su… bisogna rimediare ad alcune cosette.>>
Il preside aguzzò lo sguardo, aggrottò le sopracciglia e, reggendosi sui braccioli dello scranno, si sporse in avanti sulla scrivania per carpire le intenzioni di Pandossa, che aveva appena ripetuto con pedissequa precisione il suo evanescente discorso.
Preside: (…basito) <<Mi stai prendendo per il culo?>>
Pandossa: (…sporgendo in avanti il labbro inferiore) <<No!>>
Preside: (…più interdetto che mai) <<Mah… Comunque, la psicologa della scuola è un’eccellente professionista. S’è laureata con pieni voti, ha svolto con brillante profitto il dottorato di ricerca, ha scritto pure dei saggi sul rapporto tra atti linguistici e comportamento… Io penso che sia meritevole di fiducia… lavora con noi da qualche anno…>>
Pandossa: <<Lo penso anch’io.>>
Preside: <<Cosa?>>
Pandossa: <<Che sia meritevole di fiducia! Devo consigliare a qualcuno di andare a trovarla. Hai ragione, bisogna aiutare i giovani a crescere in professionalità.>>
Preside: (…passandosi le mani sul volto come a contenere lo stress) <<Beh, sì. Però, intendevo anche altro. Potresti andare a trovarla tu, così, per scambiare due parole con lei…>>
Pandossa: (…pur essendo consapevole dei propositi del preside) Ma no! Ha qualche anno in più di mia figlia. Ti ringrazio di cuore dell’interessamento, ma, ormai, alla mia età, sono fin troppo abituato a stare da solo, non voglio frequentare una donna, non è il caso…>>
Preside: (…rosso di vergogna) <<Intendevo dire che potresti frequentarla per le sue competenze; a nessuno di noi fa male un colloquio con una psicologa… Non credi?>>
Pandossa: (…rimettendosi in piedi, sul punto di lasciare la stanza) <<Fissami un appuntamento! Ma non prima delle diciotto! Adesso, torno in aula!>>
Il preside, a bocca aperta, istupidito, seguì con lo sguardo Augusto Pandossa, mentre questi si dileguava fischiettando.

Nello studio di psicoterapia.

Psicoterapeuta: <<Buongiorno, professor Pandossa. Come sta?>>
Pandossa: <<Piuttosto bene. Avrei preferito restare a casa, sul divano, a guardare un film, gustando i prelibati cioccolatini regalatimi da mia figlia, ma mi sono adattato volentieri alla novità.>>
Psicoterapeuta: <<Cosa l’ha indotta a venire da me, dal momento che preferiva gustare i cioccolatini di sua figlia?>>
Pandossa: <<Il preside.>>
Psicoterapeuta: <<Lei è qui per il preside?>>
Pandossa: <<Sì. Ma questo lo sa anche lei. È stato lui a fissare l’appuntamento. Mi rendo conto che il protocollo terapeutico prevede un certo approccio, quindi, se è necessario, andiamo avanti così!>>
Psicoterapeuta: <<Quindi, lei ha fatto cosa gradita al preside venendo qui. Come la fa sentire questo gesto nei confronti del preside?>>
Pandossa: <<Un uomo molto caritatevole! Il preside è cardiopatico ed io ho voluto accontentarlo.>>
Psicoterapeuta: <<Le sembra un bel gesto?>>
Pandossa: <<No. Non è un bel gesto. È  solo un’opera di carità. L’aggettivo da lei usato è improprio.>>
Psicoterapeuta: <<Quindi, la sua presenza qui è un’opera di carità e lei avrebbe preferito stare a casa a gustare i cioccolatini che le ha regalato sua figlia.>>
Pandossa: <<Esatto! Mi spieghi una cosa! Presumo che la riformulazione faccia parte del metodo, ma, mi creda, è molto noiosa! Potremmo cimentarci in una conversazione più dinamica. Tutto sommato, oltre a essere una psicologa e un paziente, siamo anche colleghi con un patrimonio culturale.>>
Psicoterapeuta: <<Com’è questa noia cui ha fatto riferimento? Potrebbe descrivermela?

La psicoterapeuta, all’oscuro del guaio linguistico in cui s’era cacciata, aveva posto una domanda di cui s’era subito compiaciuta, principalmente per aver messo in relazione il colloquio e lo stato d’animo d’un paziente assai complesso. Tuttavia, Augusto Pandossa, per il quale la domanda “potrebbe descrivermela?” significava chiaramente che era possibile descrivere la noia, allo stesso modo in cui non era possibile farlo, andò in sollucheri, tenendo conto anche del fatto che la sua interlocutrice aveva usato il condizionale, aggravando la tensione ipotetica del discorso.
Pandossa: <<Sì. Potrei descrivergliela. Ne ho facoltà>>
La psicoterapeuta si dispose, quindi, con enfasi, ad accogliere il cosiddetto talking-out del professore, il quale, invece, dopo aver dato il proprio assenso, appollaiato comodamente sul divanetto, cominciò, noncurante di chi gli stava innanzi, a osservare con interesse quanto gli stava intorno: mobilio, suppellettili e quadri. La psicoterapeuta, facendo fatica a seguirlo, s’affrettò a indagare sugli espedienti linguistici del “qui ed ora”, nel rispetto scientifico dell’approccio, laddove avrebbe voluto – e non lo negò a sé stessa – intrattenersi a chiacchierare col collega senza schemi d’interpretazione comportamentale.
Psicoterapeuta: <<C’è qualcosa che attira la sua attenzione?>>
Pandossa: <<Sì.>>
Il professore aveva l’abitudine di non arricchire le proprie risposte con ciò che non era esplicitamente richiesto; dunque, alla domanda “C’è qualcosa che attira la sua attenzione?” era sufficiente rispondere o con un sì o con un no. Bisognava porgli un’altra domanda per entrare nel suo campo percettivo, essendo poi disposti ad ammettere che la successiva risposta appartenesse autenticamente al campo percettivo.
Psicoterapeuta: <<Quale?>>
Pandossa: <<La bruttezza dei quadri appesi alle pareti.>>
Psicoterapeuta: (…inghiottendo a vuoto per lo sconforto, come volesse trattenere la reazione) <<Le giunge dunque una sensazione di bruttezza… E se le dico che questi quadri sono dei lavori di alcuni miei pazienti affetti da gravi psicopatologie, lei cosa pensa di questa bruttezza?>>
Pandossa: <<Penso che sia una bruttezza molto brutta. La storia ci ha donato artisti preziosi affetti da gravi psicopatologie, ma la malattia mentale non ha impedito loro di produrre dei capolavori, anzi, talora è stata fonte d’arricchimento; col che non intendo dire che la malattia mentale è una risorsa dell’arte, sia chiaro! Ho solo ribattuto alla sua affermazione. Evidentemente, questi individui con schizofrenia non sono degli artisti. Vien fatto di pensare che questi lavori siano l’esito di attività riabilitative. Nulla da eccepire. Il guaio è che lei li espone con orgoglio. Allora, c’è da chiedersi o quale sia il suo criterio di bellezza artistica o perché lei, seppure così giovane e competente, ceda al vezzo denigratorio di mettere in mostra quanto è prodotto da un ingegno limitato. È una strana posizione quella dell’essere umano che offre al pubblico gli errori altrui; forse si tratta di un tentativo di colmare dei vuoti di personalità o di contrastare un qualche complesso d’inferiorità. Di certo, non sono la persona idonea a formulare questi giudizi. La mia è una banale opinione. Pensi a tutti quegli accademici che imbrattano centinaia di pagine per informare la comunità scientifica delle errate interpretazioni degli altri pensatori, critici o filosofi, quello che siano! Potrebbero, molto più sanamente, impiegare la propria verve scritturale nella stesura di vere opere, anziché dire che Tizio o Caio non hanno ben valutato la poesia di Sempronio. Allo stesso modo, ma su un piano molto più basso, si collocano tutte quelle pubblicazioni di stupidari e frasari fatte da sedicenti scrittori. Insomma, mi dolgo di dover scoprire che anche lei si compiace di questo insano costume. Forse, ho parlato troppo a lungo.>>
Psicoterapeuta: (…un po’ nervosa, ma con esemplare contegno) <<Nient’affatto. L’ho ascoltata con interesse. La bruttezza dei quadri dei miei pazienti la rimanda al cattivo costume dei critici letterari, costume che poi sarebbe anche il mio…>>
Pandossa: <<Ci risiamo! Di nuovo questa specie di riformulazione! La diverte tanto oppure è proprio necessario questo metodo?>>
Psicoterapeuta: <<Entrambe le cose.>>
Pandossa: <<Mi fa piacere che almeno lei riesca a divertirsi.>>
Psicoterapeuta: <<Forse perché lei è un uomo caritatevole, quindi le sta anche a cuore il mio stato d’animo?>>
Pandossa: <<No. Mentirei, se le dicessi che mi sta a cuore il suo stato d’animo. E inoltre non ho mai detto d’essere un uomo caritatevole. Fare qualcosa di caritatevole non vuol dire essere uomini caritatevoli.>>
Psicoterapeuta: <<Bene! Ci limitiamo a dire che lei ha fatto qualcosa di caritatevole nei confronti del preside, ma che non le importa niente di me.>>
Pandossa: <<Ora c’è una buona approssimazione alla verità.>>
Psicoterapeuta: <<Perché parla di approssimazione? Manca qualcosa alla verità?>>
Pandossa: <<Manca sempre qualcosa alla verità. Non gliela posso rivelare io la verità perché non la conosco. Se lei ne sa qualcosa, m’informi pure!>>
Psicoterapeuta: <<La sua unica verità mi pare sia il benessere…Se lei qui sta bene, è giusto che ci rimanga. Altrimenti, è giusto che vada via.>>
Pandossa: <<Io, qui, sto benissimo. Lei ha delle gambe e dei seni meravigliosi…Sarei uno stupido se non godessi della contemplazione. Ecco! Questa potrebbe essere un’espressione della verità della mia presenza qui. Ma alla verità manca qualcosa. Io sono più grande di lei di circa venticinque anni e ho una figlia che ha qualche anno in meno di lei. La contemplazione oscilla, di conseguenza, tra un’opera di Dalì e una di Carrà.>>
Psicoterapeuta: <<Sono certa che questo nostro primo incontro sia stato proficuo…>>
Il professore: (…interrompendo il flusso emotivo della psicoterapeuta) <<Lo penso anch’io. Se avrò bisogno di lei, la ricontatterò.>>

Scosso dall’eccitazione, intrepido, il professore non vedeva l’ora di rientrare a casa per lasciarsi andare al solito rituale della masturbazione.

***

Dai più si dice che un certo gusto erotico è dato anche nell’attesa e nella privazione, ma l’attesa e la privazione sono unicamente delle negazioni dell’essere o, diversamente, modi del rinvio, della necessità imponente e, talora, dell’incapacità di amare.


L’ombra delle querce secolari ha garantito ai poeti, nel tempo, solo un ristoro apparente e amaro, permettendo loro di associare il disagio con le metafore della natura, che giovano alla nascita di corpi letterari antologici. Colui o colei che, girando per casa, possono scorgere semichiusa la porta del bagno e, attraverso la porzione di luce, sono in grado d’intravedere la metà d’un corpo accovacciato sul bidè, senz’alcuna sofferta genitura poetica, diventano abili nel raccontare molto di più di quanto farebbe un maestro del dolce stil novo. Egli o ella, accostandosi all’immagine domestica, è vero, spiano ciò che non hanno bisogno di spiare perché, in quel momento, lo possiedono, quand’anche quel corpo appartenga ad altri per costume, tuttavia trovano maggiore gratificazione nell’atto furtivo che nella richiesta, poiché sanno, tramite lo sguardo e in quest’unico ambiguo modo, di sconfiggere la privazione residua, dominando l’attesa.

Ogni adunanza pubblica è un’occasione pura per indagare al fine di scoprire chi tra i presenti sa giovarsi dei fuochi fatui, quelli che illuminano sempre le stanze buie e, soprattutto, nascoste, e chi, al contrario, resta inchiodato ai gruppi di discussione amena. L’amante perfetto, in queste circostanze, passeggia tra coloro che parlottano e cerca una compagna di fuga, facendosi beffe dei relatori e d’ogni buona maniera: è insidioso, diabolico, scrupoloso, cauto, coraggioso, mai troppo sorridente e sempre pronto alla prematura perdita. E sia chiaro: le differenze di genere non hanno alcun senso!

Alla fine della passeggiata, ella sarà distesa, nuda, sulle gambe di lui, che sulle sue curve riscriverà la vera storia sacra.
2
Reputazione


S’era cimentato nella narrativa, con una raccolta di racconti e un romanzo, ma, in seguito alla pubblicazione del romanzo, che aveva riscosso notevole successo di pubblico, s’era rifiutato di prendere parte al programma di promozione preparato dalla casa editrice e da lui sottoscritto per contratto, contratto che, molto probabilmente, non aveva mai letto, ed era stato stroncato nel giro di tre mesi. In una delle rarissime interviste rilasciate a un valoroso e zelante giornalista d’un quotidiano nazionale che lo aveva inseguito per settimane aveva dichiarato, in merito al proprio rifiuto: <<Io promuovo i libri in classe, durante il ginnasio perché interpreto il ruolo dell’educatore. Già al liceo, smetto di fare il promotore, specie se ho fatto un buon lavoro negli anni precedenti. Ho, anzitutto, il dovere di aiutare gli studenti a scoprire il mondo della letteratura. Quindi, se i lettori hanno bisogno di un promotore, di qualcuno che li aiuti a scoprire il mondo della letteratura, è necessario che tornino sui banchi di scuola. Oppure si tratta di una specie di supplica? Dovrei supplicare il lettore di leggere il mio libro? Non sono sufficienti le recensioni pubblicate sui giornali? Insomma, io sono pagato per fare il professore di lettere, lei è pagato per fare le recensioni. Mi sembra che il discorso non faccia una grinza. In quanto al resto… Qual è l’altra accusa? Gioco a fare l’artista pazzo? Dicono questo di me? Tenuto conto che il gioco è sempre divertente, bisogna dire che le presentazioni dei libri sono assai noiose. Descrivere un proprio personaggio significa fare autoesaltazione; ascoltare qualcuno che lo descriva è rischioso perché sarebbe come osservare qualcuno che voglia picchiare tuo figlio. Se lei è padre, sa cosa intendo dire. Non mi guardi così! Non mi riferisco a mia figlia. Ho anche i miei personaggi da curare… Beh… Lasci perdere! Lei non è in grado di capire!>>.

Le ultime parole della dichiarazione, naturalmente, s’erano immediatamente tradotte nella cacciata metaforica del giornalista, il quale, pur pubblicando fedelmente il pezzo, non aveva di certo rassicurato i lettori sulla qualità umana dell’autore. Augusto Pandossa, in effetti, non godeva di buona reputazione; il guaio era che la requisitoria sociale contro di lui era assai debole. Uno dei suoi principali difetti per i suoi giudici, per esempio, era la vedovanza; o, meglio, non la vedovanza in quanto stato, ma la sua incapacità di riammogliarsi che ne derivava. I colleghi gli perdonavano pure l’irredimibile voglia di disertare i consigli di classe, ma non tolleravano di buon grado la sua solitudine. Di lui si raccontava che aveva il vizietto di frequentare i transessuali; ed anche in questo caso il problema stava non tanto nella diversità sessuale, che, stranamente o fintamente, veniva quasi accettata, quanto piuttosto nel fatto che egli non ne faceva mistero, tanto da rispondere nel seguente modo alla domanda impertinente di un collega che voleva ragguagli circa una diceria: <<Il transessuale rappresenta la più alta espressione della sessualità, è un lascito dell’eros greco-platonico…>>.

Un’altra abitudine che infastidiva alquanto le poche persone che gli giravano attorno era il pasto delle dodici e trenta o delle tredici e trenta, a seconda dell’orario della fine delle lezioni. Il professore soleva recarsi al bar che si trovava di fronte al liceo classico tutti i giorni lavorativi; ordinava un’insalata di lattuga, pomodoro e mozzarella, la condiva con sale, pepe, olio e aceto balsamico e la mangiava con un paio di fette di pane nero. Gli altri professori lo guardavano di sbieco, quasi con sdegno, non perché non si unisse a loro nel pranzo, ma perché era instancabilmente metodico e instancabile nel consumare tutti i giorni, da anni, lo stesso pasto. Egli sapeva di essere una specie d’osservato speciale, ma non se ne curava, talvolta ne rideva tra sé, talaltra li provocava dicendo loro: <<Per caso, gradite un po’ d’insalata?>>. All’età di sessant’anni, il professore continuava a studiare come uno studente ammodo: dedicava tre ore al giorno all’analisi dei testi, di cui ripeteva ad alta voce il contenuto appreso, per poi annotare sul quaderno di pertinenza i dati salienti. A ogni disciplina studiata assegnava, infatti, un quaderno d’appunti, sembrando sempre uno scolaretto in procinto d’essere interrogato per la chiusura del quadrimestre. Anche questa consuetudine intellettuale finiva coll’essere oggetto di discussione dei colleghi del liceo, i quali, mal sopportando il disagio dell’inferiorità culturale e non essendo disposti a piegarsi sotto il peso della scienza, lo etichettavano come studioso grigio e monotono, inadatto a fornire agli allievi gli stimoli necessari.

Nel cortile della ciarla era finita anche Eleonora Pandossa, la figlia trentenne di Augusto, un’avvenente biologa che s’era trasferita in una città costiera, a circa duecento chilometri dall’abitazione del padre, allo scopo di esercitare con successo la professione per la quale s’era laureata. Ella, sinceramente innamorata del padre e a lui devota, tornava spesso e volentieri a fargli visita. Eleonora era l’unico essere umano per il quale Augusto fosse lesto a modificare l’amato tran tran quotidiano. In presenza di lei, egli rinunciava sia ai libri sia all’insalata. Fin da un’ora prima del suo arrivo, lo si vedeva passeggiare lungo il marciapiede della fermata dell’autobus, con le mani intrecciate dietro la schiena, ben pettinato e profumato. Eleonora era l’unica donna della sua vita e lo era fin dalla morte della moglie. Augusto non aveva mai voluto turbare la crescita della figlia con altre presenze femminili. In genere, ella trascorreva due o, al più, tre giorni assieme al padre, essendo costretta a rientrare presso l’istituto di biologia marina nel quale lavorava. Padre e figlia, mano nella mano, andavano in giro per le vie della città per ore, chiacchierando, facendo shopping e ricordando la mamma, scomparsa – si diceva – per una patologia mai diagnosticata dai medici, quando la piccola Eleonora aveva solamente dodici anni.

Le male lingue avevano insinuato il dubbio pure in questa relazione d’archetipica purezza. Secondo le maldicenze, era impensabile e, quindi, inaccettabile che una giovane donna di tale bellezza vivesse tutto il proprio tempo libero a stretto contatto col padre. Augusto, uomo d’impareggiabile mansuetudine, raro esempio di saggio epicureo e, nel contempo, stoico per sopportazione, dava in escandescenze già all’idea che qualcuno potesse anche solo vagamente coprire d’onta la sua paternità. In un’occasione, aveva mollato un ceffone al collega di matematica che, volendo apparire quale uomo d’esperienza, s’era concesso uno squallido e lubrico sorrisetto ai danni di Eleonora.

***

La tendenza alla condanna di ciò che, con impertinenza e irresponsabilità, viene definito 'diverso' è la cifra sociale di un delirio semantico e religioso. La comunità civile ha bisogno di vittime per sopravvivere a sé stessa, vuole nominare il male e non c'è imputato migliore di chi si sottrae al canone o, diversamente, al matrimonio, laddove il presunto trasgressore o adultero, al contrario, anche se non sempre, appare come un riformista, uno stratega del godimento, un equilibrista, un sapiente. Gli ‘adulteri’ veri sanno impreziosirsi dell'attimo e condividere orgasmi oracolari perché stanno sempre oltre la condivisione stessa, nei luoghi in cui il mondo è fatto solo per loro: è vero, camminano su corde sospese a diversi metri dal suolo, mentre la folla, da basso, attende solo lo spettacolo della rovinosa caduta, ma ciò che essi vedono da lassù non è concesso a pavidi e pigri.

Il desiderio autentico si compie come oltraggio alla virtù comune e come atto mefistofelico. È il perfezionarsi della pura ‘infedeltà’, consiste nel tradire sé stessi per continuare ad amarsi e comincia nell'esatto momento in cui riusciamo a riconoscerci in segreto: noi e gli amanti; noi e il bacio nascosto; noi e il piacere innominabile. Il mondo ha sempre temuto gli amanti, finendo col trucidarli, ma ogni essere umano, senza farsi notare, ne ha suffragato l'eterna beatitudine.
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Sensualità

Nenia di Sara Morghese
La sua mano scorreva garbatamente lungo tutto il corpo, dalla fronte, sulla quale si soffermava a picchiettare la pelle corrugata a guisa di amorevole massaggio, alle gambe, che possedeva in una stretta avida e, nello stesso tempo, solenne. Si moveva con studiata accuratezza, cosicché l’itinerario della carezza si compiva in armonia, non già con la verticale linearità di chi voglia frettolosamente coprire di sé le pudende, bensì con la saggezza consumata di chi sa di non dover privare l’amante d’alcun piacere o, in altre parole, di non poter trascurare alcuna parte di quanto gli è offerto in dono. Così, giunta sul collo, la mano si slargava aderendo perfettamente a esso e puntando le dita sul mento. Mai troppo licenziosa, strisciando verso il basso, col dorso effettuava un movimento circolare intorno all’areola dell’uno e dell’altro dei capezzoli, senza invaderli o stropicciarli. Tra sfioramenti e toccamenti, risaliva per incontrare la gentile muscolatura del braccio. A quel punto, tornava indietro seguendo un percorso diverso: attraverso l’ascella, che baciava, prima di lasciarla, arrivava al fianco, su cui giocherellava pizzicandone le carni. In seguito, indice e medio, uniti, tratteggiavano il confine immaginario tra il basso addome e la peluria pelvica, mantenendo sempre una distanza minima dai genitali. Intorno all’inguine, le cinque dita tornavano ad essere compatte e si chiudevano sull’interno coscia, provocando, per esplicita espressione della volontà, un’eccitante mescolanza di piacere e dolore che si estendeva fino al gluteo, sul quale si ripeteva la stessa pratica erotica. All’altezza del ginocchio, la luce giallognola dell’abat-jour investiva una piccola porzione della mano, le falangette, facendone spiccare il rosso rubino delle unghie, che, poco dopo, si sarebbe nascosto in un groviglio di peli.

Tutt’intorno, il mobilio antico e tarlato sembrava appiccicato alle pareti per coprire le maleodoranti macchie di muffa. Dal tetto pendeva, retta da due fili, una lampada di sessanta watt fulminata da anni. La stanza era quadrata, sempre fredda per via dell’umidità, disadorna e disarmonica in tutti gli elementi: la porta ridipinta più volte, a strati sovrapposti, d’un grigio scuro; lo scrittoio era fatto d’un legno truciolare marrone chiaro che contrastava nettamente col marrone scuro dell’armadio ed era collocato accanto alla porta, tanto da limitarne l’apertura; qua e là, sparsi sul pavimento, indumenti ammonticchiati. Al di sopra del capezzale, dominava una ricostruzione grafica dell’arte bizantina: il Cristo Pantocratore.

Di fronte al letto, a poco meno di mezzo metro da esso, le ante dell’armadio, chiudendosi, realizzavano uno specchio a misura d’uomo.

Il rosso rubino delle unghie combaciò col pene. L’immagine riflessa trasformò il movimento del colore in crescente sensualità. L’orgasmo fu rapido: ci vollero meno di due minuti. Ne seguirono ansia ed estenuazione. Il professore, reclinato il capo all’indietro, si voltò alla propria sinistra e, con sguardo spento, individuò il flacone degli ansiolitici; la qual cosa fu sufficiente a quietarlo. Poi si rivolse allo specchio, fissandolo intensamente. Alzò la mano destra e la contemplò, un po’ imbronciato. Era solito masturbarsi, dipingendo le unghie della mano di rosso rubino, un colore molto caro alla moglie, morta da una ventina d’anni. In questo modo, si sottraeva alla solitudine sessuale, soddisfatto ed orgoglioso. In genere, non si limitava a smaltare le unghie; abbelliva un intero lato del proprio corpo con ornamenti e tolettatura femminili. Per le unghie del piede destro rispettava la tinta di quelle della mano destra. Secondo lo stesso principio, toglieva i peli in tutta la parte destra del corpo. Aveva anche cucito un paio di mutande per metà femminili e per metà maschili. Rossetto e quant’altro per il make-up del viso completavano l’opera. Occorreva rievocare la figura della moglie, altrimenti non c’era modo di godere. Il contrappeso negativo gli era dato dall’incontrastabile ricordo del terribile lutto; per la donna che aveva sposato aveva nutrito una passione smodata. Dunque, viveva da solo, in una casa a pigione. E, per lo più, faceva sesso da solo.

Augusto Pandossa era un uomo di bell’aspetto, curato ed elegante, di altezza superiore alla media, magro e con una calvizie che non gli impediva di far crescere i bianchi capelli fino ad una lunghezza regale. Era taciturno ed un po’ scontroso. Mai scorbutico o inopportuno! Aveva dedicato la vita alla letteratura, senza svago né divagazioni, per anni aveva tradotto i classici greci e latini per delle edizioni scolastiche e, col tempo, complice il lutto, s’era fatto un po’ misantropo. Una delle sue massime era, grossomodo, la seguente: “l’altro di me stesso sono soprattutto io, quindi il mio primo sforzo consiste nel non essere altro da me nel momento in cui sono per l’appunto l’altro di me”. Nonostante questi pensieri, era un uomo assai semplice e che conduceva una vita altrettale. 

***

Luoghi e abiti non ci appartengono fino all’esatto momento in cui, rispettivamente, lasciamo un’orma e cominciamo a sudare oppure, inciampando, cadiamo e ci accorgiamo d’uno strappo sui pantaloni. Prima che accada qualcosa di simile, uomini e cose, fatti e pensieri si presentano in sequenze e non si distinguono dal fogliame autunnale o dalla pula che un forte vento di scirocco solleva con impeto in una giornata estiva. La coreografia della nostra mollezza e della nostra gretta cecità non include quasi mai i colpi di scena o, per lo meno, non li ammette quali parti della sceneggiatura. Eppure, le gelosie d’una qualche finestra ridisegnano addosso a qualcuno porzioni di desiderio, qualcuno che non vede l’ora di lasciare un’altra orma o cadere e accorgersi d’un altro strappo.

In questo modo, ci rifiutiamo, per lo più, di confessare di aver bisogno di quel corpo, di quel corpo sconosciuto o sul quale la nostra memoria ha un potere evocativo minimo. Ne immaginiamo le contrazioni, quando si spoglia, pur affaticandoci alla ricerca dei particolari: naso piccolo e all’insù, occhi neri o verdi o, forse, d’un colore che non riconosciamo, orecchie piccole, ma non troppo e chissà quante altre cose. Sul posto di lavoro, c’interroghiamo, confidando che la persona della scrivania accanto, con la quale abbiamo trascorso ormai un paio d’anni, possa improvvisamente chiederci di seguirla nel buio magazzino dell’azienda. In palestra, tra un esercizio e l’altro, tentiamo d’essere utili a qualcuno o di far bella mostra di sagacia e umorismo, convincendoci d’essere altruisti, laddove ogni gesto è parte d’un rituale, non già d’un rituale erotico, bensì d’un rituale d’iniziazione eroica: una sola consonante genera una differenza enorme. Per strada o mentre facciamo la spesa in un grosso centro commerciale, raddrizziamo la schiena, esibiamo una smorfia di consapevolezza, pur sapendo che non siamo affatto consapevoli di qualcosa, e finiamo coll’essere cani da tartufo senza padrone né addestramento.         

Spesso, alcuni di noi cercano conforto nella letteratura, ma non ne ricaviamo un granché: Dante dedicò la vita a una donna che non poté mai possedere, Petrarca non fu da meno, Leopardi s’impegnò pure a innamorarsi d’una donna vera e propria, ma di fatto non riuscì neanche in quest’impresa; se cambiamo profilo e chiamiamo in causa un Bukovskij, accostandoci a lui unicamente per la nomea e il successo di pubblico, scopriamo un autore che quasi insulta il corteggiamento e la conquista e non possiamo fare a meno di pensare che tanta rabbia provenisse da un grande disagio. Fin da piccoli, siamo stati istruiti a mentire, siamo stati costretti a non dire che vogliamo toccare e vedere. Noi sappiamo per mestiere di non dover dire che vogliamo godere e, soprattutto, sappiamo che non è prova d’eleganza o intelligenza dirlo. Se Amleto avesse fatto l’amore con Ofelia, anziché farla impazzire, molto probabilmente la tragedia sarebbe finita in commedia.

Se una domenica qualunque, andando a messa, sapessimo di dovere incontrare, qualche ora dopo, la nostra o il nostro amante, sicuramente accoglieremmo con rinnovato entusiasmo l’invito alla pratica della buona novella.