9
Amplesso
Si diceva che la donna, già
affetta da disturbi della personalità e, più volte, ospedalizzata in preda al
delirio, dopo il terribile lutto, avesse subito un devastante peggioramento, a
causa del quale era stata vista parlare animosamente con la figlia defunta sul
posto di lavoro, dal quale successivamente era stata allontanata. Le
allucinazioni e i deliri non l’avevano privata del tutto di lucidità e
autonomia; anzi, in qualche modo, l’avevano consegnata a uno stato di fiabesca
beatitudine in cui ella era persuasa di avere ritrovato la figlia. Di
conseguenza, le sue movenze e il suo linguaggio s’erano ricostruiti alla luce
di un candore incorruttibile; ogni suo gesto e ogni sua parola erano sospinti
da una spontaneità primitiva, una forma di purezza estranea anche al più audace
degli avventurieri dell’intelletto, al più sincero dei poeti.
Augusto Pandossa la trovò
splendida nella sua carnalità sublimata. Le lasciò fare ogni cosa, senza
parlare né tentare d’influenzarne il comportamento. Ne contemplò i tratti fisici
fin dal momento in cui ella si fu incurvata sulla nota della spesa, come se
fossero i confini d’una terra promessa ormai prossima. Le ciocche di capelli
cascanti sulla fronte gli erano parse veli preziosi d’un sipario aperto sui
lavori di bulino e cesello d’un ritrattista guidato da Dio. Nel suo volto, per
lo più assente, aveva visto una gemma lavorata a rilievo: i grandi occhi verdi,
il piccolo naso all’insù, la modesta sporgenza degli zigomi e il turgore delle
labbra gli avevano fatto rilevare una divina proporzione.
Quasi mai, negli anni successivi
alla morte della moglie, Augusto Pandossa aveva dedicato a una donna tanto
riguardo e altrettanto raramente s’era lasciato suggestionare a tal punto da
provare immediata eccitazione. Quand’ella lo ebbe preso sottobraccio, egli si
sentì deliziosamente torturato da quelle unghie tinte di rosso rubino che, in
cerca d’alloggiamento tra il fianco e il rilievo esterno del muscolo dorsale,
sembravano ghermire una corporeità fin troppo acquiescente. Ritrovandosi
accanto a lei, quale elemento naturale d’una coppia di coniugi, Augusto non
aveva potuto fare a meno di smarrirsi nel decolleté improvvisato da un paio di
bottoni abbastanza cedevoli della bianca camiciola di seta indossata dalla
donna.
Si chiamava Patrizia ed era stata
compagna di classe di Augusto fin dai tempi del ginnasio.
L’età non ne aveva affatto
alterato la generosa sensualità, che si espandeva virtuosamente in forme
vistose ma non troppo, eleganti, scultoree anche nelle imperfezioni causate dal
tempo. La gonna nera che scendeva giù da una cintura beige elasticizzata e
affibbiata sul basso ventre, giungendo a malapena alle ginocchia, spronava
ulteriormente la fantasia erotica del professore, che si tratteneva a fatica
dal lasciare che le proprie mani scorressero liberamente sul corpo della donna.
E inoltre, l’alienazione patologica dal mondo faceva di Patrizia, agli occhi di
Augusto, un personaggio d’una commedia greco-classica che aveva il potere di
stare tra gli uomini e gli dei, senza tuttavia doversi commisurare agli uni o
agli altri.
Esausto di piacere, Augusto
staccò la mano dal braccio di Patrizia e la fece scivolare sul fondo schiena di
lei, facendola aderire pienamente alla parte alta dei glutei. Ella si girò di
scatto a fissarlo e, stirando verso l’alto la parte sinistra del volto,
dall’arcata sopraccigliare all’angolo della bocca, fece una risata altera e di
compiacimento il cui suono somigliava a un cenno di vocalizzo d’un soprano.
Augusto ne fu rincuorato e insistette a toccarla, rassicurato dalla copertura
del cappotto di lei.
<<Vieni da me!>> le
disse d’improvviso, non senza un tremito d’ansia.
<<Buon uomo, voi mi
affascinate!>> rispose lei in un eloquio drammaticamente disorganizzato.
<<Ma l’uomo che m’attende non sa ancora abitare il centro della casa. E
anche se so d’essere esistita solo io nell’incognita d’una vita reale o
coniugale, resto promessa a quell’uomo. Sono una sacerdotessa del centro della
casa.>>.
Bombardato da un’incredibile
quantità di stimoli linguistici e figure del significato, Pandossa, che non si
sentiva affatto in imbarazzo, sottolineò con arguzia: <<Si dà il caso,
mia cara Patrizia, che anch’io abbia il centro della casa e lì t’ho attesa per
anni, fin dai tempi del ginnasio.>>.
<<In questo caso la realtà
è ideale.>> aggiunse lei con inspiegabile intraprendenza e continuò:
<< È irremovibile la mia presenza nel mondo uterino dei centri della
casa. Lo dico spesso anche a mia figlia: - Non fare molti esami, se poi non
esisti come esaminata! -.>>.
Udendo il termine “figlia”,
Augusto avvertì una sensazione di scoramento, non riuscendo a conciliare il
proprio desiderio con quella maternità smembrata e disperata. Avrebbe rifatto
il cammino della seduzione a ritroso, se non fosse stato certo che quel
tentativo di conquista era stato animato, fin da principio, da un sentimento
unico, quantunque ancora ignoto, ma dirompente, mai provato in tutti gli anni
della vedovanza, difficile addirittura ad accettarsi come tale nella banalità
di un pomeriggio trascorso al supermercato. Si chiedeva, infatti, con
insistenza, se fosse possibile affermare d’amare una donna in quel modo. Egli
voleva Patrizia tutta per sé. Non era di certo disposto a dividerla col marito
o ad accontentarsi della clandestinità, resa peraltro impossibile dalle condizioni
mentali della donna.
<<Il mio intelletto perdeva
sangue, quel giorno… La mia bambina aveva deciso di sostenere un altro
esame…>> soggiunse lei flebilmente e rabbuiandosi.
Egli le prese il volto tra le
mani e le diede un bacio sulla fronte, un bacio che rasserenò Patrizia, la
quale appoggiò la testa sulla spalla di lui e si lasciò trascinare in silenzio.
Augusto Pandossa toccava il cielo con un dito. Patrizia era la compagna di vita
ritrovata: con un violento accesso d’egoismo lodò le virtù della schizofrenia,
che considerò uno scudo contro le avversità del mondo esterno. Scosso dalla
passione, il professore condusse Patrizia fuori dal supermercato. Ella non
protestò, lo seguì affabilmente. Poi, salirono sull’autobus e, in poco meno di
mezz’ora, furono sulla soglia dell’appartamento di lui. Egli se ne fece
servitore, riservandole ogni premura. La fece accomodare sulla propria poltrona
e la invitò ad assumere la posa che giovasse maggiormente al suo benessere. Le
chiese se avesse fame e cosa desiderasse, così da prepararle qualcosa di
prelibato, ma ella, in risposta, improvvisò uno strano canto il cui ritornello
era: “l’uccellino vien cantando”. Egli s’inginocchiò ai suoi piedi e la ascoltò
con religiosa devozione.
Alla fine del canto, Augusto le
prese le mani e ne contemplò, eccitato e commosso, il rosso rubino delle
unghie. Iniziò a baciargliele e ad accarezzarle con la punta della lingua. Con
una certa mollezza, ella gliele porse, quasi fossero doni votivi, ma,
sporgendosi in avanti, gli fece capire di pretendere un bacio. Si baciarono con
delicatezza, lentamente, gustando ogni passaggio di quel contatto. A poco a
poco, abbandonarono sul pavimento tutti i vestiti e si accompagnarono
vicendevolmente in camera da letto. Patrizia si distese goffamente sul letto,
assumendo una posizione perfettamente retta e in linea col piano d’appoggio.
Augusto ne rise dolcemente e le si sedette accanto, senza mai smettere di
toccarla, senza mai rinunciare a procurarle piacere. Quella donna, si disse, lo
avrebbe amato solo nell’accoglierlo dentro di sé. Il suo sguardo, chiaramente
infisso al tetto, e la sua immobilità avrebbero potuto trarlo in inganno, ma le
vibrazioni del corpo e l’espressione di quel viso rapito dalla letizia e dalla
piacevolezza erano limpide testimonianze di attaccamento a quella forma di
vita. Le si mise addosso, invitandola a divaricare le gambe. Tentò di
catturarne lo sguardo, ma non ottenne successo. Si decise, non senza
esitazione, a penetrarla. All’inizio, fu difficile muoversi dentro di lei,
senza sentirne le spinte pelviche, cosicché Augusto stentò a goderne. Poco
dopo, però, egli fu costretto a fermarsi. Patrizia lo aveva stretto a sé con
tale forza e con tale vigore lo esortava a continuare che, sulle prime, Augusto
aveva temuto che qualcosa d’ignoto o allucinatorio stesse per portargliela via.
Fu un vero e proprio rapporto d’amore, al termine del quale egli si prese cura
del suo riposo. La accompagnò in bagno, la lavò e la riportò a letto.
Rimboccatele le coperte, le si mise accanto e la vide dormire per tutta la
notte.
***
Bisogna ammettere che la maggior parte del nostro
desiderio oscilla inelegantemente tra le rinunce e lo spreco, tra le figure
della speranza e quelle dell’afflizione; in poche e povere parole, esso è
nevrastenico. Lo è, in primo luogo, perché nessuno di noi possiede più lo
spirito messianico e la furia dell’eroe cavalleresco a capo dell’avanguardia.
In secondo luogo, è così e non può essere altrimenti perché - per dirla con
Platone - siamo imitatori delle cose reali: avere un’intuizione su qualcuno che
possa farci godere per noi significa iniziare un cammino a ritroso alla ricerca
di predicati e nomi protettivi, rifuggendo dagli aggettivi, spesso troppo
impertinenti e ambigui. Ciò che per natura è protettivo è, nello stesso tempo,
narrabile, si può, per l’appunto, raccontare ad altri e si sa che non c’è
alcunché di più confortante e rassicurante quanto il poter dire qualcosa a
qualcuno. Non siamo fatti per custodire un segreto, laddove l’intuizione non è
altro che un segreto, un che d’inenarrabile, specie quella che ci conduce
rapidamente all’eccitazione.
Noi, di fatto, siamo tutti ‘sposati’, lo siamo anche
quando non lo siamo per legge: siamo sposati per genesi e ontologia; è
connaturata in noi l’idea di essere bravi e buoni e la presenza, istituzionale
o fittizia, di qualcuno che faccia da barriera morale ci aiuta a non morderci
troppo spesso le mani per via di tutte interruzioni di cui siamo responsabili,
interruzioni che, in realtà, sono delle piccole morti. Sappiamo di non essere
d’accordo con noi stessi, ma questo sembra non contare molto.
Dunque, battute su battute e la chat è gremita, più di
fantasie che di promesse incrollabili: il collo non s’umetta né le pelvi
s’incontrano. È così che ogni bacio e ogni incontro sono rinviati affinché si
continui a dire di avere resistito fieramente e santamente. Occhi, glutei,
piedi, seni, mani e cosce sono confinati nella distanza e ciò che s’intuisce
come piacevole è respinto. Questo preludio d’eros equivoco è solo la
metamorfosi dell’attesa che qualcosa accada, di una mano che incontri la
nostra, di uno sguardo che si fissi sul nostro viso, di labbra che percorrano i
nostri confini.
Eppure, in queste condizioni, siamo piuttosto sicuri
di non poter essere mai sicuri. Attendere qualcuno è un po’ come cercare il
volto di Dio tra i viandanti di un mercato: passeggiamo guardinghi e ansiosi,
sbirciamo di sottecchi forme e colori; percepiamo che è vicino a noi, ma non lo
è tanto da essere abbracciato e baciato; siamo coscienti che sia lontano, ma lo
è tanto da essere aspettato a lungo. Ogni sfioramento e ogni fortuito toccamento
ci fanno sussultare di piacere. Nella casualità del gesto, possiamo ancora
appellarci all’inconsapevolezza, perderci ancora nell’alibi dei tanti impegni
mondani, nella pretestuosa dichiarazione di sazietà sessuale o nell’alleanza
coi tempi dei biblici rinvii.
Prima o poi, pollice e indice si
stringeranno sul bottone e l’asola non resisterà allo stesso modo in cui
abbiamo fatto noi in precedenza - ne siamo consapevoli, in fondo -. Le parole
non morranno più di similitudini e liturgie, scomparendo, schiacciate
semplicemente tra la bocca e l’inguine. A quel punto, per poter tentare
un’altra fuga dovremmo essere in grado di assegnare all’orgasmo predicati e
nomi perfetti, tuttavia verranno fuori solamente aggettivi.