venerdì 27 dicembre 2019


9
Amplesso


Si diceva che la donna, già affetta da disturbi della personalità e, più volte, ospedalizzata in preda al delirio, dopo il terribile lutto, avesse subito un devastante peggioramento, a causa del quale era stata vista parlare animosamente con la figlia defunta sul posto di lavoro, dal quale successivamente era stata allontanata. Le allucinazioni e i deliri non l’avevano privata del tutto di lucidità e autonomia; anzi, in qualche modo, l’avevano consegnata a uno stato di fiabesca beatitudine in cui ella era persuasa di avere ritrovato la figlia. Di conseguenza, le sue movenze e il suo linguaggio s’erano ricostruiti alla luce di un candore incorruttibile; ogni suo gesto e ogni sua parola erano sospinti da una spontaneità primitiva, una forma di purezza estranea anche al più audace degli avventurieri dell’intelletto, al più sincero dei poeti.

Augusto Pandossa la trovò splendida nella sua carnalità sublimata. Le lasciò fare ogni cosa, senza parlare né tentare d’influenzarne il comportamento. Ne contemplò i tratti fisici fin dal momento in cui ella si fu incurvata sulla nota della spesa, come se fossero i confini d’una terra promessa ormai prossima. Le ciocche di capelli cascanti sulla fronte gli erano parse veli preziosi d’un sipario aperto sui lavori di bulino e cesello d’un ritrattista guidato da Dio. Nel suo volto, per lo più assente, aveva visto una gemma lavorata a rilievo: i grandi occhi verdi, il piccolo naso all’insù, la modesta sporgenza degli zigomi e il turgore delle labbra gli avevano fatto rilevare una divina proporzione.

Quasi mai, negli anni successivi alla morte della moglie, Augusto Pandossa aveva dedicato a una donna tanto riguardo e altrettanto raramente s’era lasciato suggestionare a tal punto da provare immediata eccitazione. Quand’ella lo ebbe preso sottobraccio, egli si sentì deliziosamente torturato da quelle unghie tinte di rosso rubino che, in cerca d’alloggiamento tra il fianco e il rilievo esterno del muscolo dorsale, sembravano ghermire una corporeità fin troppo acquiescente. Ritrovandosi accanto a lei, quale elemento naturale d’una coppia di coniugi, Augusto non aveva potuto fare a meno di smarrirsi nel decolleté improvvisato da un paio di bottoni abbastanza cedevoli della bianca camiciola di seta indossata dalla donna.

Si chiamava Patrizia ed era stata compagna di classe di Augusto fin dai tempi del ginnasio.

L’età non ne aveva affatto alterato la generosa sensualità, che si espandeva virtuosamente in forme vistose ma non troppo, eleganti, scultoree anche nelle imperfezioni causate dal tempo. La gonna nera che scendeva giù da una cintura beige elasticizzata e affibbiata sul basso ventre, giungendo a malapena alle ginocchia, spronava ulteriormente la fantasia erotica del professore, che si tratteneva a fatica dal lasciare che le proprie mani scorressero liberamente sul corpo della donna. E inoltre, l’alienazione patologica dal mondo faceva di Patrizia, agli occhi di Augusto, un personaggio d’una commedia greco-classica che aveva il potere di stare tra gli uomini e gli dei, senza tuttavia doversi commisurare agli uni o agli altri.

Esausto di piacere, Augusto staccò la mano dal braccio di Patrizia e la fece scivolare sul fondo schiena di lei, facendola aderire pienamente alla parte alta dei glutei. Ella si girò di scatto a fissarlo e, stirando verso l’alto la parte sinistra del volto, dall’arcata sopraccigliare all’angolo della bocca, fece una risata altera e di compiacimento il cui suono somigliava a un cenno di vocalizzo d’un soprano. Augusto ne fu rincuorato e insistette a toccarla, rassicurato dalla copertura del cappotto di lei.

<<Vieni da me!>> le disse d’improvviso, non senza un tremito d’ansia.
<<Buon uomo, voi mi affascinate!>> rispose lei in un eloquio drammaticamente disorganizzato. <<Ma l’uomo che m’attende non sa ancora abitare il centro della casa. E anche se so d’essere esistita solo io nell’incognita d’una vita reale o coniugale, resto promessa a quell’uomo. Sono una sacerdotessa del centro della casa.>>.
Bombardato da un’incredibile quantità di stimoli linguistici e figure del significato, Pandossa, che non si sentiva affatto in imbarazzo, sottolineò con arguzia: <<Si dà il caso, mia cara Patrizia, che anch’io abbia il centro della casa e lì t’ho attesa per anni, fin dai tempi del ginnasio.>>.
<<In questo caso la realtà è ideale.>> aggiunse lei con inspiegabile intraprendenza e continuò: << È irremovibile la mia presenza nel mondo uterino dei centri della casa. Lo dico spesso anche a mia figlia: - Non fare molti esami, se poi non esisti come esaminata! -.>>.

Udendo il termine “figlia”, Augusto avvertì una sensazione di scoramento, non riuscendo a conciliare il proprio desiderio con quella maternità smembrata e disperata. Avrebbe rifatto il cammino della seduzione a ritroso, se non fosse stato certo che quel tentativo di conquista era stato animato, fin da principio, da un sentimento unico, quantunque ancora ignoto, ma dirompente, mai provato in tutti gli anni della vedovanza, difficile addirittura ad accettarsi come tale nella banalità di un pomeriggio trascorso al supermercato. Si chiedeva, infatti, con insistenza, se fosse possibile affermare d’amare una donna in quel modo. Egli voleva Patrizia tutta per sé. Non era di certo disposto a dividerla col marito o ad accontentarsi della clandestinità, resa peraltro impossibile dalle condizioni mentali della donna.
<<Il mio intelletto perdeva sangue, quel giorno… La mia bambina aveva deciso di sostenere un altro esame…>> soggiunse lei flebilmente e rabbuiandosi.

Egli le prese il volto tra le mani e le diede un bacio sulla fronte, un bacio che rasserenò Patrizia, la quale appoggiò la testa sulla spalla di lui e si lasciò trascinare in silenzio. Augusto Pandossa toccava il cielo con un dito. Patrizia era la compagna di vita ritrovata: con un violento accesso d’egoismo lodò le virtù della schizofrenia, che considerò uno scudo contro le avversità del mondo esterno. Scosso dalla passione, il professore condusse Patrizia fuori dal supermercato. Ella non protestò, lo seguì affabilmente. Poi, salirono sull’autobus e, in poco meno di mezz’ora, furono sulla soglia dell’appartamento di lui. Egli se ne fece servitore, riservandole ogni premura. La fece accomodare sulla propria poltrona e la invitò ad assumere la posa che giovasse maggiormente al suo benessere. Le chiese se avesse fame e cosa desiderasse, così da prepararle qualcosa di prelibato, ma ella, in risposta, improvvisò uno strano canto il cui ritornello era: “l’uccellino vien cantando”. Egli s’inginocchiò ai suoi piedi e la ascoltò con religiosa devozione.

Alla fine del canto, Augusto le prese le mani e ne contemplò, eccitato e commosso, il rosso rubino delle unghie. Iniziò a baciargliele e ad accarezzarle con la punta della lingua. Con una certa mollezza, ella gliele porse, quasi fossero doni votivi, ma, sporgendosi in avanti, gli fece capire di pretendere un bacio. Si baciarono con delicatezza, lentamente, gustando ogni passaggio di quel contatto. A poco a poco, abbandonarono sul pavimento tutti i vestiti e si accompagnarono vicendevolmente in camera da letto. Patrizia si distese goffamente sul letto, assumendo una posizione perfettamente retta e in linea col piano d’appoggio. Augusto ne rise dolcemente e le si sedette accanto, senza mai smettere di toccarla, senza mai rinunciare a procurarle piacere. Quella donna, si disse, lo avrebbe amato solo nell’accoglierlo dentro di sé. Il suo sguardo, chiaramente infisso al tetto, e la sua immobilità avrebbero potuto trarlo in inganno, ma le vibrazioni del corpo e l’espressione di quel viso rapito dalla letizia e dalla piacevolezza erano limpide testimonianze di attaccamento a quella forma di vita. Le si mise addosso, invitandola a divaricare le gambe. Tentò di catturarne lo sguardo, ma non ottenne successo. Si decise, non senza esitazione, a penetrarla. All’inizio, fu difficile muoversi dentro di lei, senza sentirne le spinte pelviche, cosicché Augusto stentò a goderne. Poco dopo, però, egli fu costretto a fermarsi. Patrizia lo aveva stretto a sé con tale forza e con tale vigore lo esortava a continuare che, sulle prime, Augusto aveva temuto che qualcosa d’ignoto o allucinatorio stesse per portargliela via. Fu un vero e proprio rapporto d’amore, al termine del quale egli si prese cura del suo riposo. La accompagnò in bagno, la lavò e la riportò a letto. Rimboccatele le coperte, le si mise accanto e la vide dormire per tutta la notte.

***

Bisogna ammettere che la maggior parte del nostro desiderio oscilla inelegantemente tra le rinunce e lo spreco, tra le figure della speranza e quelle dell’afflizione; in poche e povere parole, esso è nevrastenico. Lo è, in primo luogo, perché nessuno di noi possiede più lo spirito messianico e la furia dell’eroe cavalleresco a capo dell’avanguardia. In secondo luogo, è così e non può essere altrimenti perché - per dirla con Platone - siamo imitatori delle cose reali: avere un’intuizione su qualcuno che possa farci godere per noi significa iniziare un cammino a ritroso alla ricerca di predicati e nomi protettivi, rifuggendo dagli aggettivi, spesso troppo impertinenti e ambigui. Ciò che per natura è protettivo è, nello stesso tempo, narrabile, si può, per l’appunto, raccontare ad altri e si sa che non c’è alcunché di più confortante e rassicurante quanto il poter dire qualcosa a qualcuno. Non siamo fatti per custodire un segreto, laddove l’intuizione non è altro che un segreto, un che d’inenarrabile, specie quella che ci conduce rapidamente all’eccitazione. 

Noi, di fatto, siamo tutti ‘sposati’, lo siamo anche quando non lo siamo per legge: siamo sposati per genesi e ontologia; è connaturata in noi l’idea di essere bravi e buoni e la presenza, istituzionale o fittizia, di qualcuno che faccia da barriera morale ci aiuta a non morderci troppo spesso le mani per via di tutte interruzioni di cui siamo responsabili, interruzioni che, in realtà, sono delle piccole morti. Sappiamo di non essere d’accordo con noi stessi, ma questo sembra non contare molto.

Dunque, battute su battute e la chat è gremita, più di fantasie che di promesse incrollabili: il collo non s’umetta né le pelvi s’incontrano. È così che ogni bacio e ogni incontro sono rinviati affinché si continui a dire di avere resistito fieramente e santamente. Occhi, glutei, piedi, seni, mani e cosce sono confinati nella distanza e ciò che s’intuisce come piacevole è respinto. Questo preludio d’eros equivoco è solo la metamorfosi dell’attesa che qualcosa accada, di una mano che incontri la nostra, di uno sguardo che si fissi sul nostro viso, di labbra che percorrano i nostri confini.

Eppure, in queste condizioni, siamo piuttosto sicuri di non poter essere mai sicuri. Attendere qualcuno è un po’ come cercare il volto di Dio tra i viandanti di un mercato: passeggiamo guardinghi e ansiosi, sbirciamo di sottecchi forme e colori; percepiamo che è vicino a noi, ma non lo è tanto da essere abbracciato e baciato; siamo coscienti che sia lontano, ma lo è tanto da essere aspettato a lungo. Ogni sfioramento e ogni fortuito toccamento ci fanno sussultare di piacere. Nella casualità del gesto, possiamo ancora appellarci all’inconsapevolezza, perderci ancora nell’alibi dei tanti impegni mondani, nella pretestuosa dichiarazione di sazietà sessuale o nell’alleanza coi tempi dei biblici rinvii.

Prima o poi, pollice e indice si stringeranno sul bottone e l’asola non resisterà allo stesso modo in cui abbiamo fatto noi in precedenza - ne siamo consapevoli, in fondo -. Le parole non morranno più di similitudini e liturgie, scomparendo, schiacciate semplicemente tra la bocca e l’inguine. A quel punto, per poter tentare un’altra fuga dovremmo essere in grado di assegnare all’orgasmo predicati e nomi perfetti, tuttavia verranno fuori solamente aggettivi.

venerdì 20 dicembre 2019


8
Fastidio


Le sue palpebre avevano frequenti e molesti scatti nervosi. Scrollando le spalle e rassegnandosi a sopportare l’inconveniente, Augusto Pandossa passeggiava lungo i corridoi del supermercato, le mani intrecciate dietro la schiena, come fosse sotto il loggiato d’una città barocca mai visitata. Di tanto in tanto, alzava lo sguardo in direzione dei neon che inondavano di luce bianca e impersonale la mercanzia e sporgeva in avanti le labbra con tale sforzo muscolare che la bocca sembrava torcerglisi in manierismi schizoidi. Tornando a osservare i prodotti, pur senza sceglierne alcuno o valutarne i prezzi, grugniva con palese inquietudine, lasciandosi andare a commenti alquanto strambi e che attiravano l’attenzione di chi gli transitava allato, ma confermando a sé stesso che sarebbe stato necessario fare la spesa.

La prima mezz’ora, infatti, era trascorsa nello spiegamento di questi balzani giochi di ruolo e della personalità.

A un certo punto, il professore, con un’ostentazione di calma che non corrispondeva affatto al suo reale stato d’animo, s’appressò ai reparti di pretto interesse femminile.

Di lì a pochi giorni, avrebbe ricevuto la figlia, la quale, oberata di lavoro, lo aveva pregato di approvvigionarla delle risorse necessarie alla permanenza. La prima fatica consisteva nell’acquisto degli assorbenti, sebbene Eleonora gli avesse impartito un’eccellente lezione in merito. Senza perdersi d’animo, andò alla ricerca d’un carrellino e riguadagnò la posizione d’attacco. Studiò il settore grattandosi il mento e s’avvide, con un colpo d’occhio, d’essere accerchiato da donne d’ogni genere e specie con al seguito chiassosi bambini. Quest’ultima visione gli provocò una tale negativa suggestione da alterarne i tratti somatici in amorfi e ridicoli piegamenti delle labbra, degli zigomi e degli occhi. Facendosi violenza, in una sorta di grottesco training autogeno, si chinò e allungò la mano su una scatola di colore viola con su scritto “Provami Nuova Linea Anatomica Assorbenti con ali”.

La afferrò, la fece ruotare davanti al proprio naso con un misurato lavoro di polso e, sempre più perplesso, con un sorrisetto amaro che gli attraversò rapidamente il viso come un’onda d’incalcolabile misurazione, la scaraventò nel carrello. Fece una pausa insignificante. Poi, più risoluto che mai, ne prese altre due confezioni, nell’assurda convinzione che una fosse insufficiente. Tre, a suo modo di vedere, sarebbero bastate appena. Procedette, quindi, ad analizzare la nota della spesa, ma lo fece con marcati sbuffi d’indignazione. Certe operazioni lo imbarazzavano e, per l’appunto, lo indignavano, anche se non avrebbe mai opposto un diniego alla richiesta della figlia.

La seconda fatica non era meno preoccupante della prima, richiedendo delle competenze tecniche: occorreva trovare una crema per il corpo alla vaniglia e alla mirra, ma occorreva anche mantenere i nervi saldi anche perché la nuova ricerca implicava degli spostamenti decisivi e la capacità di farsi largo tra le giovani donne.

L’approccio fu disastroso.

Le scaffalature gli parvero anonime, le creme erano troppo numerose perché se ne potesse selezionare quella adeguata ai bisogni di Eleonora, la quale, tra le altre cose, non si sarebbe accontentata d’una scelta di ripiego. Al povero Pandossa toccò, pertanto, andare su e giù per i corridoi, senza riuscire a cavare il cosiddetto ragno dal buco. La turbolenza dei bambini che gli schiamazzavano attorno, la voce metallica della filodiffusione che promuoveva le offerte, il chiacchiericcio delle famigliole e, più in generale, l’intero corredo umano del supermercato lo confondevano oltremisura. Si chiese più volte perché mai la figlia lo avesse condannato a tale supplizio.

A poco a poco, tra una smorfia d’insofferenza ed un sorriso di rassegnazione, si sciolse dai pregiudizi di genere e decise di chiedere aiuto a una delle esperte clienti che, in quel mondo, si destreggiavano con piroette da acrobata. Si rivolse, a caso, alla prima donna che gli capitò a tiro. Era un’abbondante signora bruna sui quarant’anni che si faceva notare per la formosità dei seni e delle natiche, che sembravano lottare con la resistenza dei tessuti per uscire allo scoperto.

<<Signora, mi perdoni per la prevaricazione! Saprebbe dirmi dove trovare una crema per il corpo alla vaniglia e alla mirra?>>.

La signora guardò subito il professore con una certa ambiguità, propria di chi avrebbe voluto curiosare nelle ragioni di quella richiesta con una bella serie di domande inopportune, anziché dare il suggerimento, tanto che non rispose con prontezza. Tenendo a freno la linguaccia, disse: <<Lei è fortunato. Io uso questa crema da parecchi anni e le assicuro che si tratta di un prodotto eccellente. Idrata la pelle, la profuma, la rende morbida al tatto. È un’ottima scelta. Se poi le interessa il consiglio di una che se ne intende, lei non deve fare altro che applicare la crema dopo una bella doccia calda. L’effetto è dieci volte superiore. Comunque, io sono Maria. Mi scusi, se sono indiscreta, ma lei ha un volto noto. Ecco! Lei è Pandossa, il professor Pandossa, mi perdoni! Il grande scrittore. L’editorialista.>>.

Augusto Pandossa era sul punto di sbottare in una risata grassa e sprezzante, più che altro la covava, ma il senso di istupidimento era tale da impedire qualsiasi altra reazione.

<<Signora>> le disse <<vorrei solo sapere dove si trova questa eccellente crema.>>.

La donna, la cui ambiguità s’era presto trasformata in malizia e sfrontata civetteria, s’affrettò a indicare la collocazione della crema. Pandossa, per contro, non rinunciò a predare la vittima: <<Se mi è concesso, signora, ha letto qualche mio lavoro?>>.
<<No!>> rispose seccamente la signora. <<Il lettore della famiglia è mio marito. Io mi ricordo di lei in un’intervista in tv di parecchi anni fa.>>.
<<Bene!>> sentenziò Pandossa, prima di piantare in asso l’interlocutrice. <<Allora, non esiti a salutare per me suo marito!>>.

Congedandosi energicamente dalla donna, il professore tese tutti i propri sforzi ai successivi acquisti, tra cui spiccava in ordine d’importanza una confezione di salviettine struccanti. Altra bella fatica. Fu così che si rimise di buona lena a ispezionare le scansie del reparto. Trovò subito ogni genere di salviettine, ma di quelle struccanti non c’era traccia. Si fermò, stese bene davanti a sé il foglio della nota ormai stropicciato, fece scorrere l’indice della mano destra sotto i titoletti e si chiese se fosse possibile fare a meno di qualcosa. Frattanto, si rese conto, con la coda dell’occhio, che una donna, da un po’, senza infingimenti né particolari stratagemmi, sbirciava il suo pezzo di carta. Egli, con la solita pronta comicità, glielo mostrò interamente, così da evitarle lo sforzo di tendere il collo. Ella, con determinata sfacciataggine, si tolse gli occhiali, raccolse in una crocchia i lunghi capelli castani con entrambe le mani e si tuffò nell’esame dell’intero elenco. Ultimata la lettura, prese Augusto Pandossa sottobraccio e lo condusse direttamente al prodotto. Al professore piacque ogni momento di quella scenetta da commedia dell’assurdo. Tra le altre cose, aveva riconosciuto quasi immediatamente la protagonista della densa ed estemporanea pièce. Era la madre della ragazza che, sei mesi prima, s’era tolta la vita nell’aula magna dell’università, sul finire della sua relazione al convegno.

***

Accade talora che un’immagine occupi un punto fisso intorno a noi: è un corpo seminudo e dai contorni sfuggenti oppure qualcosa che somigli a un sentiero di montagna. D’un tratto, volgiamo lo sguardo a riconoscerne sporgenze o profondità, secondo che riusciamo ad approssimarci all’uno o all’altro dei due ritratti. Ne siamo parte fin dall’inizio, in qualche modo, ma non sappiamo se questa compresenza sia rischiosa, fiabesca, illusoria o, semplicemente, inutile. Ciò che realmente ci è apparso, di fatto, è un bisogno, inconfessato e vivido, d’incontrare chi, non a caso e non per errore, ha lasciato segni sul ciglio della strada erbosa, mostrando di sé il biancore sfocato delle proprie spalle, senza indugiare lungo il cammino in soste d’ozio e falsi contrattempi.

La speranza spesso è letale perché da essa ci facciamo precedere e, di conseguenza, adombrare. Siamo scalzi e, forse, anche in mutande; la visione ci ha dominati durante un pomeriggio agostano qualunque; fingiamo d’essere impreparati e cantiamo inni all’attesa; questo tuttavia non c’impedisce di correre a colmare le distanze.

Quando finisce il lirismo delle provocazioni, delle suggestioni e dei richiami, le parole si fanno voluttuose e le nostre gambe s’alternano in falcate ampie, irriconoscibili e talentuose. Se il dire non è fare, ci ammaliamo di virtù anodine ed equivoche.

Più oltre, cioè in direzione della lontananza, all’interno d’una baita immersa nella boscaglia, in cui non abbiamo più un nome e neppure una memoria gloriosa e limpida, qualcuno ci aspetta. Disteso sul giaciglio di fortuna improvvisato in tempi ignoti da amanti avventurosi, è ormai privo d’ogni veste, ha gli occhi chiusi e i pugni serrati, quasi volesse stringere a sé l’origine d’un orgasmo. Il nostro ingresso è maldestro; spalanchiamo la porta con furore e facciamo fatica a frenare il lungo e intenso slancio che ci ha condotti fin lì. Per la seconda volta, ci fermiamo: in parte, rifiatiamo; in parte, siamo esterrefatti e increduli, inerti e molli. Se ci avanziamo, ciò avviene in modo involontario, cosicché siamo salvi e, poco dopo, siamo stretti all’altro dall’intreccio di due piedi, che cingono la nostra schiena. Un bacio, dolcissimo e, al tempo stesso, terribile ci rende sovrumani.

L’eros, quello autentico, è invisibile e innominabile.  

venerdì 13 dicembre 2019


7
Fisiologia


Un applauso di cocente approvazione coperse la voce di Pandossa, il quale andò avanti: <<Qualche mese fa, il mio preside mi consigliò di andare da una psicoterapeuta. Io, essendo rispettoso del mio superiore, accettai il consiglio. A tal proposito, però, emerge un grosso problema: se la dottoressa ha un bel culo e delle belle tette, la psicoterapia funziona. E aggiungo: solo per un po’, il tempo della seduta… perché, ad un certo punto, bisogna pagare. E le sedute, com’è noto, hanno un bel costo. Qual è la morale della favola? Uno scrittore che volesse offrirci un resoconto della relazione tra la psicoterapeuta e il paziente Pandossa dovrebbe indagare su tutte le concause nascoste, non potrebbe limitarsi a descrivere il rapporto di causa ed effetto: il preside, il professor Pandossa, la psicoterapeuta e blà, blà, blà. Questo, bisogna dirlo, Joyce lo fa benissimo. Alle otto e quarantacinque del mattino, cioè quando inizio le mie lezioni al liceo, gli allievi mi guardano catatonici, siamo tutti un po’ grinzosi, come lo è il lenzuolo stretto e schiacciato, quando dormiamo bocconi. Allora, mi metto a girare lentamente tra i banchi. Mi serve vigore. È inutile chiedere una disciplina inesistente e che sarebbe utile, diversamente, solo a scrivere altre settecento pagine d’un saggio che pochi esseri umani leggerebbero e che nulla ha da chiedere alla poesia.

Scivolo tra i banchi. Devo stupire i miei allievi per svegliarli; non del tutto però! Non è facile rispondere a tanta responsabilità.

D’un tratto, mi sovviene l’idea determinante.

Passeggiare in aula interpretando e incarnando le norme interpuntorie. Ecco la soluzione! Ma che vuol dire? Il passo lentissimo dovrebbe corrispondere a tre puntini di sospensione. Il passo lento all’asindeto. Può darsi. Il passo lento, breve e circostanziato corrisponde sicuramente al punto e virgola. Che vuol dire passo circostanziato? Un passo osservato in fase di svolgimento. Il passo seguito da una sosta in un punto qualsiasi dell’aula è inequivocabilmente un punto. Il salto a piè pari potrebbe essere altrettanto inequivocabile: due punti. Ma non posso fare il salto. È la congiura delle norme interpuntorie contro di me.
Ho la vescica piena. Devo svuotarla. In aula è impensabile. Il gesto non avrebbe alcunché di interpuntorio. Vado a pisciare tra la sosta del punto ed i due punti.

A quale formula di scrittura corrisponde? Mi serve un esempio dotto. Ci penso, mentre, già in bagno, mi libero del peso. Il voyeurismo di Dante per Beatrice nella Vita Nuova. Sì, non guardatemi come allocchi! Chiamiamo le cose col giusto nome. Dante era un voyeur. D’altronde, c’è un che di fisiologico. Con un bel giro di parole potrei cavarmela. No! Non va proprio. È tutto così spirituale. Citiamo un altro voyeur! Petrarca. Anche qui potrei cavarmela. Ma non se ne parla proprio! Neanche in questo caso. Un mito è pur sempre un mito. Non va toccato. Allora, Boccaccio! Andreuccio da Perugia mi pare bell’e rincoglionito. E poi… se gli studenti lo raccontano in giro? Un po’ di educazione culturale non fa mai male. Vediamo un po’. Tasso, Boiardo, Ariosto. Un Orlando che perde il senno per poi ricuperarlo sulla luna grazie ad Astolfo e a un cavallo alato potrebbe anche costituire la manifestazione di un problema di ordine fisiologico nella scrittura. Sì, ma così s’indebolisce il processo di fascinazione. Lo stesso dicasi per il don Chisciotte! Nobiltà non rima con pisciare né con fisiologia.

La scrittura è un atto creativo; non la si può mica insudiciare in maniera spicciativa. Mi occorre un salto temporale. Non è escluso che la letteratura dell’ottocento e del novecento mi sia più favorevole.

Ho trovato! Kafka. Tutti hanno letto di Gregor Samsa e nessuno può negare che uno scarafaggio sia tanto immondo quanto una scrittura che manifesti una fisiologia impertinente e inopportuna. La pelle del mio pene s’impiglia nella chiusura lampo, proprio mentre sto per mettere a punto l’esempio dotto. Il dolore lancinante spazza via ottocento anni di letteratura. Il mio membro è arrossato. Al rientro in aula sono pallido, ma godo della sensazione di scampato pericolo. Gli studenti mi fissano. Sono in debito con loro!

Ricomincio a passeggiare tra i banchi e medito sempre su qualcosa di fisiologico, qualcosa che renda l’idea dello scampato pericolo! Uno scrittore contemporaneo potrebbe cominciare proprio dall’arrossamento di un membro qualsiasi. Vi ringrazio dell’ascolto! Una buona giornata!>>.

Una poderosa ovazione accolse il professore che s’apprestava a lasciare lo scranno. Gruppi indistinti di uditori gli si avvicinarono per complimentarsi con lui. Egli fece appello a tutta la propria inventiva per evitarli e puntò risoluto l’uscita. Mentre stava per defilarsi, però, s’udì un colpo di pistola che intronò l’intera aula magna. Come fosse attratta da una calamita, la più parte dei presenti s’ammucchiò attorno al corpo esanime della studentessa universitaria che s’era appena tolta la vita con un gesto plateale, infilandosi in bocca la canna di una trentotto e facendo fuoco alla presenza di amici e colleghi. Pandossa s’impietrì. Contemplò la scena imprecando tra sé: <<Gli eventi pubblici non portano mai a nulla di buono!>>. Gli riusciva difficile sopportare lo sdegno alla vista di quella calca di omuncoli curiosi che subissava di sguardi e commenti il cadavere della giovane donna. Poi, premuroso e paterno, con la coda dell’occhio, vide i propri studenti inseguire la folla e si slanciò ad impedire loro di partecipare allo scempio.

Sentì il bisogno di isolarsi a elaborare un angosciante dolore ignoto e che giudicò irragionevole e impertinente. Appena fuori dall’istituto, infatti, si assicurò che i ragazzi riprendessero la via di casa e cercò le strade meno affollate per fare ritorno alla propria, senza opporsi più alle lacrime, che solcarono copiosamente il suo viso.

***

'Adesso, basta!': sarebbe il caso d'incidere questa formula imperativa su tutti i diari segreti degli esseri umani, ma occorrerebbe farlo, quando fossero adolescenti e cominciassero a convincersi d'avere un certo credito nei confronti della natura. Guardare il mare e dichiarare d'amarlo o d'esserne affascinati, senza averne mai domato le onde a bordo d'un'imbarcazione di fortuna e, soprattutto, a largo, presso i grandi banchi, dove scompaiono misure e grandezze protettive, equivale a gloriarsi d’un titolo che non si possiede. Fin da piccoli, siamo indottrinati con malevolenza nell’arte patetica dell’ammirazione e dello scimmiottamento, che altro non è, fuorché una variante della pusillanimità e della pigrizia: si esalta ciò che resta a debita distanza da noi e che, per ciò stesso, appare elevato e nobile.

Dunque, impariamo a menadito interminabili elenchi di parole astratte: amore, amicizia, bellezza, anima et similia; ne abusiamo fino al momento in cui, per difetto di memoria ed esaurimento, cominciamo a ripeterle daccapo perché siamo iniettati di petrarchismo e stilnovismo. Nessuno ci ha mai fatto notare tuttavia che il sublime Petrarca, l’imponente Dante o il raffinato Leopardi, pur qualificandosi come poeti inarrivabili, erano irredimibili voyeur travestiti da sacerdoti della delicatezza. <<Chiare, fresche e dolci acque>> è il racconto di un guardone; <<Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia>> è la spacconata di un uomo che usa il possessivo “mia” a proposito di una donna che non ha mai sfiorata. Intendiamoci! Nessuno, qui, ha l’ardire di revocarne in dubbio la qualità letteraria, talora inarrivabile, talaltra addirittura ‘trascendente’: occorre un po’ di coraggio ermeneutico-esistenziale, se non vogliamo limitarci ad applaudire gli autori delle antologie. Il recanatese era un po’ più onesto degli altri, ma, con Silvia, si lascia spesso andare a posizioni ambigue. Impotenti o pavidi, non avrebbero mai saputo dire a una donna ‘ti voglio’ o, addirittura, ‘voglio scoparti’, cosicché il verbo ‘scopare’ viene esiliato dalla lingua, estromesso come maleficio linguistico e insulto. A scuola, nessuno ci parla di Neruda, Rilke e Celan.

Non saremo mai pronti al naufragio; diversamente, per allontanarci un po’ dalla terraferma abbiamo bisogno, tutt’intorno, di luce e schiamazzo, della stagione estiva e di spiagge affollate. Di notte, nulla può accadere. Allo stesso modo, se una mano s’insinua con forza tra le gambe dell’atro, senza il dovuto preavviso, o corre a stringerne i capelli, la prima reazione configura un insensato e inspiegabile rifiuto.


venerdì 6 dicembre 2019


6
Parola


Impazientito, andò a farsi una doccia calda, con i cui vapori si dilettò per più di venti minuti. Altrettanto comodamente fece colazione. Poi aperse l’armadio della camera da letto, si soffermò a meditare su quale sarebbe stato il parere della moglie e fu certo di dover indossare un bel vestito blu, con camicia bianca e cravatta rossa. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, rise della propria emotività e seguitò a vestirsi. Alle nove e trenta, Augusto Pandossa, ben vestito e profumato, era già sotto casa ad attendere che l’autobus passasse a prelevarlo. Molto di rado, si metteva alla guida della propria autovettura. L’autobus gli permetteva di leggere e meditare, benché gli toccasse farlo in mezzo alla calca. Dopo avere atteso per un quarto d’ora, senza vedere alcun mezzo pubblico, vide arrivare dall’angolo alla sua sinistra un’utilitaria con a bordo dei ragazzi e il cui autista pigiava all’impazzata il clacson. Il suono era diretto proprio a lui. Uno dei ragazzi, infatti, sporgendosi dal finestrino gli urlò allegramente: <<Professore! Salga su! La accompagniamo noi!>>. L’autovettura gli si fermò accanto.

Pandossa, per la seconda volta, quella mattina, si sentì pungere dal batticuore.

I suoi alunni del quinto anno avevano marinato la scuola per seguirlo. I ragazzi gli fecero subito posto sul sedile anteriore ed egli non esitò ad occuparlo né ad assumere lo stile del compagnone. Il ragazzo che stava alla guida ripartì facendo sgommare le ruote. Il professore gli diede il cosiddetto cinque, oltre a qualche consiglio sulla guida sportiva, facendo esplodere nell’abitacolo un entusiasmo frenetico. Un’alunna ancora diciassettenne gli disse: <<Prof, lei è troppo fresco!>>. Il professore ruotò il capo verso di lei, aggrottò comicamente le sopracciglia e la redarguì paternamente: <<Paola, fresco non significa un bel niente! Ragazzi miei, dovete riformare il vostro codice. Poi, c’è da dire che non mi sento fresco. Beh, a pensarci bene, stamani, forse, un po’ fresco sono. Comunque, ne riparleremo in classe. È un bel principio di discussione.>>. Un altro ragazzo ribadì: <<Prof, se ne faccia una ragione! Lei è troppo fresco.>>. Pandossa, che in materia di linguaggio non cedeva neppure una virgola, aggiunse: <<Allora, ragazzi, può anche starmi bene l’aggettivo. Però, intendiamoci almeno sul significato di fresco!>>. Il ragazzo che stava alla guida e che fino a quel momento non aveva partecipato alla discussione, disse: <<Fresco è un tipo ok!>>. Ancora una volta Pandossa, che, in pratica, tra una battuta e l’altra, stava offrendo indirettamente agli studenti una lezione preziosa sul rapporto tra significante e significato intervenne: <<E che tipo sarebbe un tipo ok? Ragazzi, attenzione! Il linguaggio ha delle funzioni precise. Ne abbiamo parlato più volte. Insomma, non potete dire a qualcuno che è un tipo ok o fresco, se poi non siete d’accordo sul significato!>>.

Paola, pur essendo la più giovane del gruppo, appariva come la più attiva e interessata: <<Prof, un tipo fresco è uno che sta dentro le situazioni, che c’ha sempre la risposta pronta perché sa dove mettere le mani; insomma, uno è fresco, se non cade mai dalle nuvole, se non è noioso.>>

Pandossa sembrò soddisfatto, ma gli toccò ammonire la studentessa: <<Paola, adesso ci siamo, ma non ripetere mai più “c’ha”!>>.
La ragazza, imbarazzata, si affrettò a correggere il tiro: <<Mi scusi, prof!>>.
<<Eh, no>> fece il professore <<non devi chiedere scusa a me, ma a te stessa!>>.
<<Io lo sapevo!>> soggiunse Giovanni, l’altro ragazzo seduto accanto a Paola <<Quando uno è fresco è fresco. Punto.>>
Molto premuroso, l’autista, si rivolse al professore cambiando argomento: <<Spero che non sia troppo tardi per il convegno. Siamo arrivati, ma sono già le dieci e dieci.>>.
<<Beata ingenuità!>> lo rassicurò il professore <<Sappi, mio caro, che nessun convegno è mai cominciato in orario! Vedrai! Siamo i primi…o tra i primi.>>.

Parcheggiata l’autovettura, la strana comitiva s’avviò verso l’aula magna dell’università, che, in effetti, era ancora semivuota. Pandossa cercò il cartellino che recasse il suo nome sul banco dei relatori e prese posto da solo, tra carteggi pergamenati ed elegantemente rifiniti e depliant col marchio dell’università in cui si faceva il resoconto pubblicitario dell’evento e si garantivano i crediti formativi agli iscritti. Ne esaminò il contenuto rapidamente per poi allontanare tutto quel materiale dal proprio spazio con un gesto netto della mano. Frattanto, gli si fece incontro il collega ed ex compagno di studi che lo aveva voluto quale relatore. Si abbracciarono, si scambiarono qualche parola di sincero affetto e continuarono a parlottare anche durante i primi interventi degli altri relatori, sotto lo sguardo sospetto del moderatore, che sicuramente non gradiva il brusio di sottofondo. L’intervento di Augusto Pandossa sarebbe stato l’ultimo tra quelli previsti per la mattina. Il professore attese sonnecchiando.

Verso le tredici, il moderatore lo interpellò per dargli la parola. Furono necessari due richiami e una gomitata dell’amico per scuoterlo dal torpore. Vincendo di colpo il sonno, iniziò a parlare, dopo aver strizzato l’occhio ai propri studenti che simularono un’onda di acclamazione in pieno stile da stadio e attirandosi lo sdegno dell’intero uditorio. Pandossa si preoccupò, anzitutto, di non deluderli: <<Joyce! Eccellente scrittore. Erudito, imponente, magistrale. Chiunque voglia definirsi scrittore non può non aver letto Ulisse o, allo stesso modo, Guerra e pace. Gli interventi sulle strutture e sulle sovrastrutture, sulle forme et cetera sono stati illuminanti. Si dice... Ed è bene che si dica. Vorrei capire, tuttavia, cosa illuminano. Mah! A che tutto questo? Mi si chiede di esprimere un parere sulle nuove correnti letterarie. Bene! Anzitutto, vorrei che non fossero delle correnti.>>.

Pandossa, dopo questo esordio, fece una pausa di un paio di minuti, causando non poco disagio. I suoi fans ridacchiarono. Gli altri uditori ne furono visibilmente imbarazzati. Non furono da meno gli accademici. Poi, d’improvviso, ricominciò: <<Se uno è fresco è fresco. Me l’ha detto un mio studente. Io sono un tipo fresco oppure un tipo ok. Questo linguaggio è primitivo, originario, essenziale. Però, per esso bisogna trovare un contesto. Ecco il compito dello scrittore! Joyce ha fatto il suo tempo, collega. Basta! Non se ne può più. Mi dica: lei sarebbe in grado di scrivere un romanzo alla Joyce? Non credo proprio. Non ha la faccia. Allora, lei è del tutto fuori del contesto. Non può impiegare vent’anni della sua vita ad analizzare un autore al quale spera disperatamente di assomigliare. È frustrante. E inoltre, non capisco, credetemi, come si possa violentare a tal punto la mente di uno scrittore, morto da chissà quanti anni e che, di conseguenza, non potrà mai reggere un confronto, a tal punto, dicevo, da fare ipotesi allucinatorie su ciò che lo ha spinto a scrivere in un modo anziché in un altro... per poi produrre un saggio di seicento o settecento pagine di analisi letteraria? Io la chiamerei ideazione suicidaria. Insomma, scriva un bel romanzo! Alla Joyce, se le riesce di farlo. Può anche darsi che lo leggeremo.>>.

Nel frattempo, l’accademico al quale Pandossa aveva rivolto il messaggio era rosso e gonfio di rabbia, sul punto di sbottare in invettive e improperi d’ogni genere. Il pubblico, tra le altre cose, cominciava a divertirsi, pur trattenendosi dall’abbandonarsi alle risa; la qual cosa indispettì oltremisura l’esperto joyceano, secondo il cui punto di vista le nuove correnti letterarie avrebbero dovuto trarre origine da certi classici allo scopo di reinventarli, se non, addirittura, ricostruirli. La sua irritazione giunse al culmine, quando la voce anonima di un allievo universitario, dal fondo dell’aula magna, gridò “bravo” a Pandossa. A quel punto, infatti, l’illustre saggista si alzò furioso e abbandonò tra i fischi il consesso. Dopodiché, Augusto Pandossa, come se nulla fosse accaduto, procedette nella dissertazione, sempre in stile dissacrante e canzonatorio: <<Dal momento che quel pover’uomo ci ha abbandonati, non abbiamo più qualcuno da insultare.>>. Questa volta, dall’uditorio si sollevò una risata uniforme e fragorosa. <<Signori, ci sono delle funzioni del linguaggio che, tuttora, ci rifiutiamo di utilizzare, come se dovessimo rispettare una sorta di comandamento della sacra letteratura. La parola è anzitutto un rumore, un suono indecifrabile e il linguaggio è insufficiente a dirci come stanno le cose, fuorché si sia disposti a credere che c’è una corrispondenza tra la chimica del cervello e quello stesso linguaggio che utilizziamo con la convinzione di dire qualcosa di sensato. Allora, a uno scrittore contemporaneo non resta che volgere lo sguardo a tutti quei codici del tutto privi di sovrastrutture, i codici della necessità, quelli dei giovani ignari del problema del linguaggio, quelli dei bambini e, perché no, quello delle prostitute o dei criminali. Immaginate una prostituta extracomunitaria che dica ad un cliente “Su, vieni, bello porco”.>>.
A queste parole, uno degli ascoltatori, tronfio ed insolente, balzò in piedi e interruppe il relatore: <<Lei è un esperto di prostituzione! Dico bene, professore?>>.

Senza lasciarsi intimorire, Pandossa rispose: <<Io predico bene e razzolo altrettanto bene. Caro signore, se devo parlare dei linguaggi essenziali, dei rumori melodiosi della strada, non posso esimermi dal fare indagini sul campo. Non posso rimproverare un collega per la sua distanza da un contesto reale per poi commettere lo stesso errore. Quindi, per me, frequentare le prostitute o i transessuali o i criminali è un dovere da letterato.>>

***

L'esistenza è fatta di segni e simboli, cioè di elementi che rinviano sempre a qualcos’altro e che, in quanto tali, non rivelano né raccontano alcunché. Al contrario, si può pure ipotizzare che essi siano veri e propri enigmi, prove d’una vicenda divina o arcana assegnateci e imposteci. Purtroppo e per natura, ci riteniamo sempre liberi d'interpretarli e trarne una storia, cosicché l'omissione è trasformata in menzogna, la dimenticanza in miseria morale, il sorriso in forma di spensieratezza. Eppure non c'è causa che corrisponda a un vero e proprio effetto, altrimenti non avremmo beneficiato della relatività di Einstein, della narrativa di Mann e Dostoevskij, della poesia di Rilke. Cosa ci spinge così violentemente verso il giudizio e verso l’oscuramento dell’identità altrui?

In genere, tutti noi dichiariamo di pretendere la verità, specie in amore, in nome del quale siamo pronti vedere luce dappertutto, ma la verità non può che essere un fatto o la sua rappresentazione. E un fatto e la sua rappresentazione si prestano unicamente a essere vissuti, non già a essere riferiti e dedotti. Forse che sorridere al dolore altrui significa disinteresse o impudenza? Forse che non farsi sentire per un determinato periodo equivale a mostrare menefreghismo? Forse che per amare qualcuno è necessario rinunciare a qualsiasi altro corpo?

Il no a queste domande è netto e perentorio, allo stesso modo in cui lo è il sì. Il dominio della possibilità non è passibile di giudizio, non si sottomette alla copula e agli aggettivi. Mentre io scrivo e ‘oso pensare male’ d’una donna che m’abbia detto di no, ella, molto probabilmente, si morde le mani e soffre delle proprie decisioni, tuttavia il suo malessere è tale da non consentirle di dire sì. Viceversa, ella stessa potrebbe pensare male di me perché ho accettato immediatamente il no, mostrandomi arrendevole. Il cane comincerebbe a mordersi la coda e noi, amandoci, finiremmo col non fare incontrare mai le nostre labbra.

Dunque: giunga un inno di gloria a tutti coloro che sono in grado di non parlare e non scrivere perché agiscono, essendo azione ogni loro pensiero! Io non ne sono capace e non posso fare altro che invidiarne la superba natura.