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Menzogna
Vago, di notte, da sempre, come
fossi rifiutato dal giaciglio, che mi accalora, mi sconsola e mi affatica.
Ascolto, intorno a me, il respiro di chi dorme beato. D’altronde, è necessario
che l’uomo riposi! Mangiucchio, passeggio, parlotto, scruto il buio o la
penombra, nella speranza che qualcuno, destandosi per insonnia o qualcos’altro,
mi faccia compagnia. Tutte le volte in cui si ha bisogno d’una compagnia
notturna, il sonno altrui è profondo e imperturbabile. M’ingegno pure a
produrre rumori neutrali, così da non essere troppo colpevole in caso di
risvegli sperati o forzati. C’è poco da fare. Allora, rimugino, lascio che la
mia testa si faccia pesante a poco a poco, mi faccio stordire dai miei stessi
pensieri che elaboro in forma incompleta, non perché non sia capace di
definirne almeno uno, ma perché, di fatto, accettando la complicità dello
stordimento, comincio a immaginare che lo sforzo cognitivo mi porti dritto al
sonno. Il più delle volte, l’armonia tra pensieri incompleti e sonno resta
insensata e incompiuta. A un certo punto, sopraggiunge l’uggia sotto la specie
dell’ipocondria e del sentimento tragico; temo d’essere colto da un malore e
avvampo di paura: uno strano e diabolico bruciore si diparte dallo stomaco, mi
percorre il torace e arriva alla fronte, provocandomi un principio di
mancamento. Sudorazione, tremore e dispnea diventano semplici complementi del
disagio, cui fa seguito, in genere, un pianto straziante: la paura della morte
imminente mi fa pensare a mia figlia, che, qualora venissi meno, non avrebbe
più la protezione che merita. Soffro intensamente all’idea che la mia piccola
donna non possa più aggrapparsi alle spalle del suo forte papà. Forte? Sì! Può
sembrare un aggettivo impertinente, invece è piuttosto pertinente! Eccome, se
lo è! Non è mica semplice, alla mia età, cioè a sessant’anni, ritrovarsi
pluridecorato dalla comunità scientifica, squattrinato e, per ciò stesso,
squalificato dalla società, nei confronti della quale l’unica risorsa possibile
diventa la menzogna. Bisogna pur raccontare qualcosa alla gente. Beh, non è
obbligatorio! La gente si può pure mandare al diavolo, ma, con la scortesia, si
peggiorerebbe il mio statuto sociale.
Il paradosso è presto fatto: se
racconto la verità – cioè che sono un fallito – i miei interlocutori mi
squalificano e, anziché impietosirsi, mi calpestano sempre di più; se racconto
una bugia, la frustrazione e il senso di fallimento mi distruggono. Ci vorrebbe
una sapiente miscela di menzogna e verità. Il verbo impietosirsi è un elemento
di dubbio, talvolta anche di scandalo: sono sul punto di chiedere pietà e non
me ne vergogno? No! Non me ne vergogno. Forse che c’è qualcosa di sbagliato
nell’aspettarsi pietà? A ogni modo, ciò che più mi preoccupa è sempre lei, mia
figlia, l’essere umano grazie al quale ho intuito in un istante che cosa
significa essere pronti a cedere la propria vita per amore. Sono persuaso che
mia figlia non sappia che lavoro fa suo padre.
Io non sono un professore. Non lo
sono mai stato. Io sono un uomo che cammina in equilibrio sulla corda tesa dei
funamboli, mentre la gente, dabbasso, pregusta la rovinosa caduta. La veglia
notturna fa brutti scherzi! Ad una ad una, le sigarette vanno via dal pacchetto;
mi sembra quasi d’inghiottirle: non fumavo da vent’anni. Il guaio è che, qualora
mia figlia mi chiedesse cos’ho fatto in tutti questi anni, non potrei fare
altro che mentire: dovrei mentire pure a lei perché una parte della mia
esistenza è oscura anche per me. La mia piccola donna non sarebbe orgogliosa
della parte oscura, ma…Insomma, io, in questo momento, dovrei essere disteso a
ronfare e sognare; invece sono qui a scrivere, fumare e rimuginare.
È molto probabile che sia tutto
frutto di una sorta di devianza psicoattitudinale. A quest’ora, non so neppure
se il termine psicoattitudinale sia adeguato a quanto voglio esprimere, ma, di
certo, rende l’idea, almeno secondo me, che, in materia di disagi, ho una certa
esperienza: ho sperimentato il disadattamento – tirocinio diretto – prima
d’insegnare che la vera letteratura, presto o tardi, ti fa vivere una sorta di
male oscuro. Non tutti hanno questo privilegio.
Intorno a me, tutto continua a
tacere. La casa accoglie altre due persone, Eleonora e Ilenia. Ho corrotto un
paio di funzionari perché mia figlia fosse trasferita da queste parti. Ora, mi
toccherebbe dirle la verità.
Possibile che nessuno si alzi
neanche per andare a pisciare? A quanto pare, è possibile.
Mi sovvengono altre questioni
notturne, anche se la capacità di pensiero va riducendosi. La nostra
personalità è come una torta tagliata a fette: ogni fetta rappresenta un pezzo di
noi e della nostra storia. Queste fette sono vive e non si lasciano mangiare
facilmente. Madre, padre, nonni, educatori d’ogni genere e specie, esperienze e
quant’altro sono fette di torta. Tutte le volte in cui entriamo in contatto con
qualcuno, non ci rendiamo conto di dovergli offrire almeno una fetta di questa
torta, lasciando dentro di noi un vuoto che può essere colmato solo da chi ha
gradito appieno il dono ed è disposto a contraccambiare in un convivio comune e
itinerante, sacro, inviolabile ed eterno. Altrimenti, non c’è speranza di
sentimenti autentici. Di fatto, però, la torta perde il bell’aspetto di
compattezza; tanto che non tolleriamo di buon grado le apparizioni
fantasmagoriche nella nostra vita, ci rifiutiamo di accettare l’idea d’un
distacco insensato o della superficialità con cui qualcuno tenta di rovinare la
nostra torta. Per contro, non esitiamo a sbocconcellare le torte altrui nello
spietato gioco della sopravvivenza: tanto maggiore è il numero di fette che
ingoiamo, quanto più al sicuro ci sentiamo, quasi che potessimo offrire
qualcos’altro a coloro che incontriamo. Ma non è così. Ne siamo talmente
consapevoli da essere ridicoli. La nostra torta è una e una sola; offriamo per
primi i pezzi di cui ci siamo impossessati per ingordigia e, intrepidi,
ansiosi, fissiamo i mangiatori temendo che sentano un retrogusto improprio, un
che d’amarognolo ed estraneo. Sappiamo bene che donare ciò che non ci
appartiene accresce il rischio, già insito nell’incontro perché, così facendo,
non difendiamo affatto la nostra personalità dagli attacchi, ma priviamo noi
stessi e l’altro d’ogni forma di realtà. Dopo che abbiamo fatto consumare
tutto, che cosa raccontiamo? E, se, per giunta, l’altro ci dice che il pasto è
stato prelibato, con quale coraggio confessiamo che non c’è più alcunché da
gustare?
Io sono diventato mia moglie e so
che qualcosa sta per finire.
***
Ogni parola in eccesso, ogni
sguardo mancato, evitante o parziale e ogni stratagemma messo a punto per
nascondere le nostre deficienze rappresentano un sovrappiù di senescenza per il
nostro corpo, che, di volta in volta, perde il contatto col mondo, s’impigrisce
e si consuma in privazioni e precetti, omissioni e melliflue litanie.
L’amore e
la sessualità che ne deriva o lo precede si originano dalla debolezza, da un
bisogno a causa del quale possiamo solo essere sicuri d’essere insicuri, ma che
ci sforziamo di negare o raccontare come inesistente. Siamo tutti
splendidamente imbecilli, ossessivamente dipendenti da orgasmi coreografici,
più da quelli non avuti che da quelli avuti: basterebbe semplicemente
sputtanarsi con eleganza e accuratezza per scampare il maggiore dei pericoli: la
castigatezza, la vergogna o, diversamente, il senso della morale. Non la
morale, si badi bene! Ma il senso della morale, l’idea secondo cui qualcosa è
giusto o sbagliato e che ci fa sentire autorizzati a vedere il male solo nelle
scelte altrui.
L’amante, da qualche parte, ci aspetta, è mezzo nuda (o nudo, a seconda
dei desideri di lettura), passeggia nervosamente per la casa, i capelli
arruffati, sbuffa e s’impazientisce per il ritardo. In realtà, nessuno ha
fissato un appuntamento, nessuno ha parlato del corpo e delle sue implacabili
rivendicazioni; gli unici messaggi si sono epigraficamente esplicati in “ti
penso”, “come stai?”, “che fai?”.
Siamo troppo abituati a distinguere
gesuiticamente le forme volgari da quelle che non lo sono, sebbene non si
sappia di preciso cosa siano, le persone ammodo da quelle che non lo sono e
così via.
Il seguito si fa masturbatorio e le immagini appassiscono. Nella saga
degli umori inariditi qualcuno s’insinua tra gli amanti, forse un povero cristo
da compatire: è il più sventurato d’una compagnia, avrebbe bisogno di toccare
ed essere toccato, ma non sa dirlo e finisce col revocare in dubbio i legami
altrui. Non può accettare che altri goda. Così, a una mancanza ne segue
un’altra. E i letti si scombinano e si rassettano troppo in fretta.
E il
petricore resta solo momento letterario.