venerdì 7 febbraio 2020

15
Omicidio


Il portacenere che era sul tavolo sembrava contenere cenere e mozziconi; dunque sembrava un contenitore; di fatto, non lo era del tutto. Di primo acchito, sembrava essere biancastro e duretto; di certo, era rotondo. Una luce, proveniente dal lampadario e che a lui giungeva giallognola, proiettava accanto a esso una porzione d’ombra entro la quale il tavolo si univa illusoriamente a ciò che lo sovrastava. A prima vista, qualche altra cosa suscitava l’interesse di Augusto Pandossa: il portacenere era sbreccato; uno dei mozziconi riportava sul filtro una macchia rossastra.

Il professore aveva appena fumato una sigaretta e l’aveva spenta esercitando una certa pressione sul mozzicone con l’indice della mano destra, bruciacchiandoselo. Non aveva avvertito alcun dolore fisico, almeno in apparenza. Avrebbe voluto accenderne un’altra, ma aveva resistito alla tentazione. Era inquieto, tanto da cominciare a picchiettare il bordo del portacenere, che, di conseguenza, sobbalzava. Un po’ di cenere s’era sparsa sul tavolo, nella regione d’ombra.

Un suono grave si propagò ritmicamente nella stanza. L’uomo si fece invadere dai ricordi; gli sovvenne, in particolare, la figura femminile della moglie, la quale, verosimilmente, era sempre assieme a lui.

Portacenere, contenuto del portacenere, macchia rossastra, ombra, suono grave, figura femminile e lo stesso Augusto, adesso, costituivano un corpo unico.

<<Come non è possibile stabilire con certezza dove si trova l’elettrone in un determinato istante all’interno dell’atomo, così non si può dire di me, se non con una certa approssimazione. Sono l’opposto di me stesso, cioè un concetto, qualcosa di astratto, appartengo al mondo del pensiero. Qualche giorno fa, mi ritrovai perfino a interrogarmi sulla virtù. Dopo una lunga ed estenuante riunione con alcuni colleghi – intellettuali brillanti, nulla da eccepire –, andammo in cerca di un bar per un caffè che ci riscattasse da tre ore di letteratura nevrotica, accademica, noiosa, lacerante e così via. Appena fuori dell’edificio, facendo due passi, alla mia sinistra vidi l’insegna luminosa di un bar. Cambiai immediatamente direzione anche perché avevo pure bisogno di alleggerire in fretta la vescica e non avevo voluto lasciare in dono all’accademia i miei liquidi. Sono fatto male. Di colpo, fui strattonato dall’illustre e affettato collega, il quale mi mise in guardia dal mettere piede dentro quel bar, avvertendomi che si trattava d’un ricettacolo di gentaglia, d’un ambiente malfamato; il che mi convinse dell’importanza che quel luogo avrebbe avuto per la mia esistenza e sentii un forte disprezzo per lui. Volevo picchiarlo selvaggiamente, ma non lo feci. Perché? Sarebbe stato un gesto eroico. Invece, sono stato un vigliacco. Oppure sono stato in grado di mantenere un buon equilibrio tra il bene ed il male?>>

L’unico vero e ineliminabile vizio dell’uomo sta nel mistero che egli crea attorno a sé… non solo come alibi per la propria inadempienza, non per tutte quelle volte in cui ha chiuso un libro dopo poche pagine di lettura non sentendosi all’altezza del compito, non per tutte quelle volte in cui ha sprecato il denaro in cose di poco conto, non per tutte le volte in cui ha abbandonato il proprio lavoro o le persone care convincendosi d’essere l’unico giusto per cui Dio non avrebbe dovuto distruggere Sodoma e Gomorra, non per tutte le volte in cui è stato mefistofelicamente capace di elaborare delle scuse, non per tutto questo… ma per ricordare a sé stesso di avere sempre una possibilità, un’area entro la quale ad Io e Sono, messi in sequenza, può seguire qualcosa, un aggettivo o un sostantivo che diano senso sociale alla perenne inadempienza. Allora, egli salta sempre dalla stessa posizione, su una specie di tappetino rimbalzante, sforzandosi di arrivare il più in alto possibile, ma, ogni volta in cui tocca terra, finge di non accorgersi di non essersi spostato neppure di un centimetro. Se ai bambini è concessa la ripetitività del gioco e del salto in vista d’una memoria da costruire, agli adulti, forti dell’esperienza, spetta il compito della previsione, laddove essi, invece, sperano di potersi fermare a mezz’aria. Il mistero consiste in questo gioco impegnativo, faticoso e snervante, praticato da tutti, indistintamente. La tregua e il riposo sono ammessi solo al buio, un buio talmente impenetrabile e imperscrutabile che neppure gli artefici del mistero sanno gestirlo soprattutto perché non vogliono accettare che il buio non è altro che un equilibrio dinamico, una variante della relatività ludico-deviante, una percezione diversa dell’energia del salto.

Pandossa era un giocatore sapiente. A differenza di tanti altri, faceva i conti con la propria memoria, soprattutto quando si trovava nella fase di massimo slancio. Ad Io e Sono, per Augusto, seguiva Beatrice. “Io sono Beatrice” ripeteva tra sé. Dopo quell’atto di suprema e violenta identificazione, egli aveva speso gli ultimi vent’anni a denunciare l’impossibile quiete dell’uomo, la propria anzitutto.

Alle prime luci dell’alba, gli andò incontro Eleonora, appena svegliata dal parlottio del padre. Gli gli si sedette sulle gambe. I due si fissarono malinconici, guidati da un presentimento arcano, oppressi dall’angoscia.

<<Eleonora, figlia mia, tu hai il diritto di conoscere la verità.>> enunciò grave e solenne Augusto.

Eleonora, vedendo piangere il padre, non ebbe la forza per proferire alcuna sillaba.

<<Io non sono un letterato, uno scrittore; io non sono un professore. Se è vero che un uomo è rappresentato dalla propria opera, la maggiore tra le mie opere è stato l’omicidio. Io sono un omicida, un uxoricida. Io ho ucciso tua madre. È stato un delitto perfetto, premeditato… Sapevo che amava un altro uomo, un uomo che non valeva niente. Forse, avrei dovuto uccidere lui. Io ho tentato di resistere, credimi! Per anni, ho voluto convincermi di avere limiti morali… e, tuttora, penso che sia ingiusto giudicare male una persona che non può né vuole amarti… poi, ho saputo che… non sei mia figlia. Fa’ di me quello che vuoi! Ammazzami! Fa’ che io paghi per il mio reato! Sappi solo che t’ho amata come una figlia, d’un amore puro ed incondizionato e…continuerò a farlo!>>    

***

Non c’è amore se non nel superamento sanguinoso, quasi inumano e, di certo, offensivo della morale comune, nella violazione delle proprie speranze, nella rinuncia a tutto ciò per cui ci si è battuti idealmente e fisicamente: l’amore è anzitutto la suprema forma d’incoerenza; il piacere stesso, l’eros per intenderci – ne subisce, anch’esso e inspiegabilmente, il contraccolpo, giacché, sulle prime, si è costretti da forze ignote a contemplare chi ci sta innanzi. Oltre la contemplazione, si apre la voragine dell’incompletezza, che iniziamo inconsapevolmente a incarnare: eravamo soli e disperavamo d’amare; adesso, amiamo e sentiamo come lacerante l’incompletezza. Perché? Perché – lo si ammetta o meno –, di respiro in respiro, non siamo più autosufficienti: perfino una goccia di sudore che ci riga il viso o lo stesso morso della fame o la scelta del colore d’una maglia diventano prefigurazioni della persona amata e assente. Si tratta di qualcosa di simile a ciò che per Kierkegaard si materializzava nello scegliere di non scegliere: Dio come abisso della paradossale libertà per il filosofo; in generale, un compagno di disagi per l’uomo. Felicità, fedeltà, lealtà e parecchie altre astrazioni inculcateci, fin da quando eravamo bambini, s’impongono presto quali vaccini obbligatori, ma pochi, forse eroi pronti al rogo, ammettono e riconoscono la prova, unico vero momento dell’iniziazione amorosa. La quiete del genere umano e, in particolare, la garanzia della sua conservazione sono sofisticamente rappresentate in questo: quest’amore che ci scuote e ci spossa è pressoché inesistente, laddove le quasi totale natura delle relazioni è fatta di accomodamenti, ripieghi. Allo stesso modo in cui non si può amare Dio e, nello stesso tempo, non essere disposti a finire su qualche croce, così non si può pensare d’amare qualcuno, se non si è disposti a morire un po’.  

venerdì 31 gennaio 2020


14
Menzogna


Vago, di notte, da sempre, come fossi rifiutato dal giaciglio, che mi accalora, mi sconsola e mi affatica. Ascolto, intorno a me, il respiro di chi dorme beato. D’altronde, è necessario che l’uomo riposi! Mangiucchio, passeggio, parlotto, scruto il buio o la penombra, nella speranza che qualcuno, destandosi per insonnia o qualcos’altro, mi faccia compagnia. Tutte le volte in cui si ha bisogno d’una compagnia notturna, il sonno altrui è profondo e imperturbabile. M’ingegno pure a produrre rumori neutrali, così da non essere troppo colpevole in caso di risvegli sperati o forzati. C’è poco da fare. Allora, rimugino, lascio che la mia testa si faccia pesante a poco a poco, mi faccio stordire dai miei stessi pensieri che elaboro in forma incompleta, non perché non sia capace di definirne almeno uno, ma perché, di fatto, accettando la complicità dello stordimento, comincio a immaginare che lo sforzo cognitivo mi porti dritto al sonno. Il più delle volte, l’armonia tra pensieri incompleti e sonno resta insensata e incompiuta. A un certo punto, sopraggiunge l’uggia sotto la specie dell’ipocondria e del sentimento tragico; temo d’essere colto da un malore e avvampo di paura: uno strano e diabolico bruciore si diparte dallo stomaco, mi percorre il torace e arriva alla fronte, provocandomi un principio di mancamento. Sudorazione, tremore e dispnea diventano semplici complementi del disagio, cui fa seguito, in genere, un pianto straziante: la paura della morte imminente mi fa pensare a mia figlia, che, qualora venissi meno, non avrebbe più la protezione che merita. Soffro intensamente all’idea che la mia piccola donna non possa più aggrapparsi alle spalle del suo forte papà. Forte? Sì! Può sembrare un aggettivo impertinente, invece è piuttosto pertinente! Eccome, se lo è! Non è mica semplice, alla mia età, cioè a sessant’anni, ritrovarsi pluridecorato dalla comunità scientifica, squattrinato e, per ciò stesso, squalificato dalla società, nei confronti della quale l’unica risorsa possibile diventa la menzogna. Bisogna pur raccontare qualcosa alla gente. Beh, non è obbligatorio! La gente si può pure mandare al diavolo, ma, con la scortesia, si peggiorerebbe il mio statuto sociale.

Il paradosso è presto fatto: se racconto la verità – cioè che sono un fallito – i miei interlocutori mi squalificano e, anziché impietosirsi, mi calpestano sempre di più; se racconto una bugia, la frustrazione e il senso di fallimento mi distruggono. Ci vorrebbe una sapiente miscela di menzogna e verità. Il verbo impietosirsi è un elemento di dubbio, talvolta anche di scandalo: sono sul punto di chiedere pietà e non me ne vergogno? No! Non me ne vergogno. Forse che c’è qualcosa di sbagliato nell’aspettarsi pietà? A ogni modo, ciò che più mi preoccupa è sempre lei, mia figlia, l’essere umano grazie al quale ho intuito in un istante che cosa significa essere pronti a cedere la propria vita per amore. Sono persuaso che mia figlia non sappia che lavoro fa suo padre.

Io non sono un professore. Non lo sono mai stato. Io sono un uomo che cammina in equilibrio sulla corda tesa dei funamboli, mentre la gente, dabbasso, pregusta la rovinosa caduta. La veglia notturna fa brutti scherzi! Ad una ad una, le sigarette vanno via dal pacchetto; mi sembra quasi d’inghiottirle: non fumavo da vent’anni. Il guaio è che, qualora mia figlia mi chiedesse cos’ho fatto in tutti questi anni, non potrei fare altro che mentire: dovrei mentire pure a lei perché una parte della mia esistenza è oscura anche per me. La mia piccola donna non sarebbe orgogliosa della parte oscura, ma…Insomma, io, in questo momento, dovrei essere disteso a ronfare e sognare; invece sono qui a scrivere, fumare e rimuginare.

È molto probabile che sia tutto frutto di una sorta di devianza psicoattitudinale. A quest’ora, non so neppure se il termine psicoattitudinale sia adeguato a quanto voglio esprimere, ma, di certo, rende l’idea, almeno secondo me, che, in materia di disagi, ho una certa esperienza: ho sperimentato il disadattamento – tirocinio diretto – prima d’insegnare che la vera letteratura, presto o tardi, ti fa vivere una sorta di male oscuro. Non tutti hanno questo privilegio.

Intorno a me, tutto continua a tacere. La casa accoglie altre due persone, Eleonora e Ilenia. Ho corrotto un paio di funzionari perché mia figlia fosse trasferita da queste parti. Ora, mi toccherebbe dirle la verità.

Possibile che nessuno si alzi neanche per andare a pisciare? A quanto pare, è possibile.

Mi sovvengono altre questioni notturne, anche se la capacità di pensiero va riducendosi. La nostra personalità è come una torta tagliata a fette: ogni fetta rappresenta un pezzo di noi e della nostra storia. Queste fette sono vive e non si lasciano mangiare facilmente. Madre, padre, nonni, educatori d’ogni genere e specie, esperienze e quant’altro sono fette di torta. Tutte le volte in cui entriamo in contatto con qualcuno, non ci rendiamo conto di dovergli offrire almeno una fetta di questa torta, lasciando dentro di noi un vuoto che può essere colmato solo da chi ha gradito appieno il dono ed è disposto a contraccambiare in un convivio comune e itinerante, sacro, inviolabile ed eterno. Altrimenti, non c’è speranza di sentimenti autentici. Di fatto, però, la torta perde il bell’aspetto di compattezza; tanto che non tolleriamo di buon grado le apparizioni fantasmagoriche nella nostra vita, ci rifiutiamo di accettare l’idea d’un distacco insensato o della superficialità con cui qualcuno tenta di rovinare la nostra torta. Per contro, non esitiamo a sbocconcellare le torte altrui nello spietato gioco della sopravvivenza: tanto maggiore è il numero di fette che ingoiamo, quanto più al sicuro ci sentiamo, quasi che potessimo offrire qualcos’altro a coloro che incontriamo. Ma non è così. Ne siamo talmente consapevoli da essere ridicoli. La nostra torta è una e una sola; offriamo per primi i pezzi di cui ci siamo impossessati per ingordigia e, intrepidi, ansiosi, fissiamo i mangiatori temendo che sentano un retrogusto improprio, un che d’amarognolo ed estraneo. Sappiamo bene che donare ciò che non ci appartiene accresce il rischio, già insito nell’incontro perché, così facendo, non difendiamo affatto la nostra personalità dagli attacchi, ma priviamo noi stessi e l’altro d’ogni forma di realtà. Dopo che abbiamo fatto consumare tutto, che cosa raccontiamo? E, se, per giunta, l’altro ci dice che il pasto è stato prelibato, con quale coraggio confessiamo che non c’è più alcunché da gustare?

Io sono diventato mia moglie e so che qualcosa sta per finire.

***

Ogni parola in eccesso, ogni sguardo mancato, evitante o parziale e ogni stratagemma messo a punto per nascondere le nostre deficienze rappresentano un sovrappiù di senescenza per il nostro corpo, che, di volta in volta, perde il contatto col mondo, s’impigrisce e si consuma in privazioni e precetti, omissioni e melliflue litanie. 

L’amore e la sessualità che ne deriva o lo precede si originano dalla debolezza, da un bisogno a causa del quale possiamo solo essere sicuri d’essere insicuri, ma che ci sforziamo di negare o raccontare come inesistente. Siamo tutti splendidamente imbecilli, ossessivamente dipendenti da orgasmi coreografici, più da quelli non avuti che da quelli avuti: basterebbe semplicemente sputtanarsi con eleganza e accuratezza per scampare il maggiore dei pericoli: la castigatezza, la vergogna o, diversamente, il senso della morale. Non la morale, si badi bene! Ma il senso della morale, l’idea secondo cui qualcosa è giusto o sbagliato e che ci fa sentire autorizzati a vedere il male solo nelle scelte altrui. 

L’amante, da qualche parte, ci aspetta, è mezzo nuda (o nudo, a seconda dei desideri di lettura), passeggia nervosamente per la casa, i capelli arruffati, sbuffa e s’impazientisce per il ritardo. In realtà, nessuno ha fissato un appuntamento, nessuno ha parlato del corpo e delle sue implacabili rivendicazioni; gli unici messaggi si sono epigraficamente esplicati in “ti penso”, “come stai?”, “che fai?”. 

Siamo troppo abituati a distinguere gesuiticamente le forme volgari da quelle che non lo sono, sebbene non si sappia di preciso cosa siano, le persone ammodo da quelle che non lo sono e così via. 

Il seguito si fa masturbatorio e le immagini appassiscono. Nella saga degli umori inariditi qualcuno s’insinua tra gli amanti, forse un povero cristo da compatire: è il più sventurato d’una compagnia, avrebbe bisogno di toccare ed essere toccato, ma non sa dirlo e finisce col revocare in dubbio i legami altrui. Non può accettare che altri goda. Così, a una mancanza ne segue un’altra. E i letti si scombinano e si rassettano troppo in fretta. 

E il petricore resta solo momento letterario.         

venerdì 24 gennaio 2020


13
Nenia


<<Lei, professore, è un uomo malinconico, glielo si legge negli occhi!>> disse la dottoressa Nicaia, col capo chino sul carpaccio di tonno preparato con accuratezza da Pandossa.
<<Sì, è vero! Sono un uomo malinconico.>> rispose pacatamente il professore, senza perdere la confortevole giovialità e con la complicità inespressa di Eleonora, la quale era talmente abituata ai giochi del padre che per lei certe frasi o passavano inosservate o erano il preludio ad una vera e propria avventura.

Alzando lo sguardo su Augusto Pandossa, la dottoressa Nicaia, se ne sentì fulminata, ammaliata e, pur volendo ribattere, s’affrettò a riempire la bocca di cibo. Eleonora notò l’imbarazzo dell’amica, mentre suo padre esibì la solita imperturbabilità.

<<Papino, fatti dare un bacio! Sei sempre più bello. Questi capelli bianchi ti donano fascino.>> intervenne pungente Eleonora, che in fatto di provocazioni era degna della propria linea di sangue. Poco dopo, infatti, aggiunse, rivolgendosi all’amica: <<Tu che ne pensi? Secondo te, mio padre è un bell’uomo o il mio è solo il parere di una figlia innamorata?>>.

La dottoressa Nicaia, che aveva già conosciuto il personaggio Pandossa durante il fantomatico colloquio in istituto voluto dal preside, non si lasciò cogliere impreparata, era una donna che univa alla bellezza arguzia e buona cultura, ma, prima di rispondere, commise l’errore di ravviarsi i capelli per poi raccoglierli in un elastico, come se volesse concedersi il tempo per una mossa adeguata; il che consentì a Pandossa di poggiare delicatamente la forchetta sul bordo del piatto, tergersi le labbra dall’olio col tovagliolo e contemplare l’intero rituale. La contemplazione complicò le cose.
<<Ecco… Io penso che… sì! Augusto Pandossa è un bell’uomo, è affascinante; il tuo, Eleonora, non è solo il parere di una figlia innamorata, a mio avviso… però dovrebbe regalarmi, ogni tanto, qualche sorriso, dovrebbe ridere un po’.>>

Pandossa, sulle prime, sporse le labbra in avanti; poi disse: <<Di cosa dovrei ridere? Se lei brillantemente ha detto che io sono un uomo malinconico, è evidente che non posso regalarle sorrisi né ridere. Dovrei ridere della mia malinconia? Se così facessi, le toccherebbe prendermi in cura. Le sue contraddizioni, dottoressa, sono spaventose. Queste, a dire il vero, mi fanno sorridere. Deve essere un vostro vizio scolastico: fare la diagnosi e, nello stesso tempo, indicare la soluzione. Ciò che sta tra l’uno e l’altro degli estremi è abbandonato al caso. Io mi ritrovo spesso a contemplare con piacere ciò che mi accade intorno. Pensi a ciò che mi accade di accertare dal mio fruttivendolo di fiducia, il quale, a mio avviso, è una vittima dei disagi e dei mali sociali. La gente, infatti, si reca da lui, che mostra massima accoglienza e affabilità, e gli dice: - Volevo un chilo di mele! - Io, al suo posto, ne sarei afflitto. In che senso “volevo un chilo di mele”? Adesso, non le vuole più? Dunque, perché andare a inquietare un onesto lavoratore, farsi tanta strada, per poi dire “volevo ciò che adesso non voglio più”? Dunque, tornado a noi: o lei è affascinata dagli uomini malinconici oppure ha mentito perché il suo “però” è una congiunzione avversativa. Nel primo caso, non dovrebbe suggerirmi di ridere di qualcosa, ma limitarsi a godere del mio essere malinconico. Nel secondo caso, non dovrebbe dirmi di essere affascinata da me. E inoltre, mia cara dottoressa, lei sa bene che cos’è il meccanismo di difesa della negazione! O sbaglio?>>
<<Sì, lo conosco bene e so altrettanto bene che lei mi piace, professore!>>
<<Si provi ad immaginare un’altra scena!>> ricominciò Pandossa <<Interrogo un mio studente, il quale è palesemente impreparato, e gli dico “avresti dovuto studiare”. È assurdo: se non ha studiato o non ha voluto farlo, non posso mica dirgli che avrebbe dovuto farlo perché la mia affermazione non cambia le cose. Perché sprecare fiato? Vi crogiolate nella melma della retorica comune, che è orripilante. Mi conceda di cambiare argomento! Di cosa dovrei ridere? Mia moglie è morta da parecchio tempo, mia figlia è lontana da me, vivo da solo, ho fallito in quasi tutte le mie imprese ideali. Se ne ridessi, sarei per lo meno squilibrato. Invece, sono fiero di me; lo sono proprio perché non rido di ciò di cui non ha senso ridere.>>

<<Papino, non esagerare!>> intervenne con passione Eleonora, avvertendo un sussulto di amarezza dentro di sé che avrebbe voluto nascondere perfino a sé stessa. Prese la mano del padre. <<Tu mi hai donato tutto. È straziante sentirti dire queste cose. Ilenia non intendeva rattristarti, la conosco bene. È una donna amorevole e garbata.>>
<<Amore mio, io non sono triste. Ti prego di credermi! Non sono neppure depresso, anzi… riconoscere i propri fallimenti non significa affatto essere tristi o depressi.>>
<<Beh, comunque sia, vi prego di accettare le mie scuse!>> disse con tono dimesso Ilenia Nicaia.

All’età di sessant’anni, Augusto Pandossa non si perdeva una battaglia. Anzi se le cercava. Era un tipo, per così dire, classico, ma mai privo di fervore romantico, pur nella flemma che lo contraddistingueva. Concepiva il sogno non già come un piano dello spirito, bensì come sfogo anomalo ed enigmatico della psiche e quindi da interpretare con metodi scientifici. Non ne faceva un segreto, al contrario se ne compiaceva e divertiva. Per lui tutto rientrava nella ferrea capacità d’analisi dell’individuo vivente, oltre la quale chiudeva gli occhi. Aveva la sagacia dello stratega in azione, l’intuito d’un inveterato giocatore di borsa, il fiuto d’un investigatore, la severità d’un vecchio precettore. In effetti, la comunità civile non era un luogo idoneo all’esercizio della sua funzione sacerdotale. Non confidava affatto in un’opera di risanamento del linguaggio e dell’agire, ma, per così dire, non era disposto a lasciar passare le forme di codardia o di pusillanimità dell’animo umano.
       
Era una sera fredda e nevosa. La solitudine di Augusto si estese come un cedimento incontrastato al resto della compagnia. Si trattava d’uno stato d’animo che sciamava per la polverosa stanza come un insetto impazzito in fuga da un predatore. Eleonora tentava invano di eludere i taciti ammonimenti del padre, che, da buon osservatore qual era, non risparmiava alla figlia e alla commensale. Ella rispondeva alla sorveglianza con qualche timida sbirciatina verso la finestra, mentre Ilenia compiva alla meglio gesti piuttosto meccanici: qualche spolveratina qua e là, al vestitino, o qualche giochino antistress con la mollica appallottolata.

In verità, a quel punto della cena, Eleonora voleva recarsi lungo la balconata a rimirare le alture imbiancate dalle prime nevi; Ilenia, trentacinque anni, scultorea formosità vascolarizzata e abbellita da maliose venule verdognole, occhi grandi d’un grigio cangiante; né alta né bassa, naturalmente procace per sembiante: tra il biondo e il castano chiaro la chioma, era smaniosa di donare il proprio corpo a quell’uomo al quale chiedeva solo d’essere dominata. Dopo alcuni minuti di esitazione, tracannò, l’uno dopo l’altro, alcuni whisky e s’accoccolò sulla sedia tentando di stuzzicare Augusto. Ogni suo tentativo, però, era vano sulle prime, odioso in seguito, poiché nulla carpiva l’attenzione di lui. Bevve ancora; cominciò a rimuginare incoercibili pensieri intrusivi circa la propria condotta morale; seguitò a mugugnare; quindi mormorò qualcosa a labbra serrate: <<Ti voglio, Augusto!>>.
Il messaggio era appena udibile, ma tutti ne distinsero suono e significato. Eleonora si alzò, baciò l’amica sulla fronte e andò in veranda.

Augusto fu cinico: <<Se anche ci fosse stata la possibilità d’amarsi, tu l’hai annegata nel whisky. Non faccio sesso con una donna ubriaca. Pretendo la piena consapevolezza di chi dice di desiderarmi.>>
Ilenia restò impassibile. Mentre il whisky faceva il proprio arcinoto dovere, ella, che stentava a mettersi in piedi, pur desiderando avvicinarsi a lui, si ripeteva, con flagellante e liturgica severità, frasi d’ammonimento a voce non troppo bassa, nella speranza che una benevola interpretazione dell’uomo le facesse guadagnare una specie di perdono, ma la bocca le si faceva pastosa, si sentiva gonfia, le parole le uscivano monche.
<<Su, non essere stupida! E non blaterare!>> sentenziò Augusto.

Le parlò con estrema amabilità e paterna tenerezza. Il contenuto della frase, forse, non sorprendeva per acume, ma l’inaspettata saggezza, la metamorfosi dell’animo e l’ampia duttilità dell’uomo erano parvenze di divinità in uno scorcio fin troppo umano. Ella trovò, quindi, la forza per stringersi al petto dell’uomo, che la carezzò rassicurandola. Augusto si ritrovò padre e amante. Non riconobbe chiaramente le sensazioni che lo scotevano, ma seppe di dover intonare una nenia, una vecchia ninnananna che era solito cantare alla figlia per favorirne l’addormentamento. Ilenia si lasciò cullare fino al sonno profondo. Eleonora, che fino ad allora aveva trattenuto le lacrime, rientrò nella sala da pranzo col volto arrossato e bagnato, ma con un sorriso che impreziosiva il suo volto. Pose una mano sul capo del padre e gli disse: <<Papino mio, Ilenia è una brava ragazza… so che ha la mia età e ti conosco, ma sappi che mi ha dichiarato con fermezza il suo amore per te! È stata a lungo in silenzio. Ha atteso il mio rientro… Non dovrei influenzarti, ma…>>.

Augusto, intenerito, le rivolse un sorriso, ma non le rispose; poi sollevò Ilenia tra le braccia e la portò nella propria camera, dove la adagiò sul letto. Non prese posto al suo fianco, ma si sedette sulla poltroncina, prese il libro delle poesie di Paul Celan e si mise a leggere alla luce dell’abat-jour. Eleonora ne ascoltò la declamazione e la spiegazione per un paio d’ore, dopo le quali si congedò dal padre, vinta dal sonno.

La notte passò e parve statica. Augusto non dormì.

Il risveglio, per Ilenia, fu come una caduta nel vuoto. Aveva nausea e mal di testa; era stordita. Si mise a sedere sul letto, reggendosi sui gomiti, e fece fatica a inquadrare l’uomo che, solennemente, stava seduto quasi di fronte a lei.

Il professore, sempre ricco di parole, non le diede certo un buongiorno convenzionale: <<Per amare dovresti avere il coraggio d’essere una meretrice dal cuore d’oro, di far godere i mariti altrui e sporcare i pavimenti delle loro mogli. Non puoi mica stare tutta la vita a lustrarli. Amare significa avere il coraggio di profanare una chiesa, di distruggere un presepe appena allestito. Sono metafore. Il buon Dio mi perdoni! Ma c’è una pura violenza nell’amare che sta proprio nell’atto di sapere andare contro di sé, contro ciò che accetti come dovuto. Addio principino! Abbiamo letto tante poesie… Eppure non riusciamo a capirne niente. Dovremmo avere un sovrappiù, capire di dolore, di piacere, ma tutto viene risucchiato dal buco dei nostri bisogni inespressi, dal punto fisso che ci si piazza davanti tutte le mattine al risveglio e non si sa mai se ci lasci in pace la sera, prima d’andare a dormire. Fa’ in fretta! Prendimi!>>

Ilenia non si fece ripetere neppure due volte l’esortazione. Gattonando, balzò addosso ad Augusto e lo coprì di baci con tale frenesia da non lasciare spazio ad alcuna reazione. Tra un bacio e l’altro, gli sussurrava parole indebolite dall’affanno e dall’impeto. Gli strappò la camicia e lo cinse in un abbraccio, trascinandolo verso il letto. Appena giunto sul letto, Augusto le afferrò i polsi e glieli bloccò, affondando la propria lingua nella bocca di lei. Poi, entrambi si spogliarono in fretta. Ella voleva essere posseduta, il suo corpo ne urlava il bisogno. Egli, invece, cominciò a baciarle gli inguini per poi lasciare scorrere la lingua sulla vulva. Le cosce di lei gli si stringevano attorno al capo per le contrazioni del piacere, cui Augusto si opponeva con una decisa pressione delle mani, divaricandole. La sentì godere per la prima volta, ma non le concesse tregua. Entrò dentro di lei facendole sentire il peso e la forza del suo maturo corpo muscolare. Si rotolarono nel letto, amandosi e sperimentando una passione inspiegabile, indescrivibile, inimmaginabile. Si spossarono, ma, non ancora appagati, i corpi restavano intrecciati. Ilenia era distesa prona sotto di lui, che continuava a muoversi, col fiatone, con più calma che in precedenza, ma senza perdere vigore e agilità. Fu lei a interromperlo, ribaltando le rispettive posizioni. Augusto, supino, sentì il caldo respiro di Ilenia sui propri genitali.

Dalla stanza attigua giunsero le note del Testamento di Fabrizio De Andrè.

Eleonora era sveglia già da un po’ e gioiva all’idea che il padre potesse trovare amore, passione e conforto in una donna da lei stimata.   

***

Seduti l’uno accanto all’altra in un’auto qualunque, gli amanti, talora, non si sfiorano neppure, ma fanno scorrere verso la lontananza la strada che si srotola innanzi a loro, misurandola avidamente con lo sguardo, affinché, prima o poi, il limite della vista si muti nel divieto di andare oltre. Accade, così, che le mani non s’incontrino e le labbra non schiocchino; ne soffrono e, per poco, percepiscono qualcosa di simile alla gloria: non perché si scoprano capaci di respingere l’assalto d’un qualche nemico, ma perché l’incommensurabile limite di ciò che sta loro intorno, quand’anche sia apparentemente irrilevante, li fa sentire pirati e assaltatori, avventurieri e combattenti, capitani coraggiosi e sapienti predatori.

Il moto ondoso d’una pozza d’acqua, quantunque leggero e trascurabile, li spoglia lentamente, li accarezza, li bacia, li possiede e lo fa in un modo innominabile, inenarrabile, ineffabile, tale che, sottraendosi al linguaggio, nessuno dei due possa temere che l’amplesso diventi un racconto. Sulle prime, si sentono costretti a dire di non sentire il bisogno delle dita dell’altro che perlustrano l’inguine, ma tremito e sudore ne rigano il viso; poco dopo, denunciano un imprecisato senso di colpa, che, in qualità di padri, madri, mariti, mogli, sanno di dover portare con sé, non altrimenti che se fosse un salvacondotto imperiale o un segno di muto riconoscimento tra coloro che possono essere sempre riammessi al ballo di corte.

Le correnti impreviste e ignote, tuttavia, li conducono a largo, a parecchie miglia dalla costa, in direzione dei grandi banchi, dove la loro piccola imbarcazione comincia a beccheggiare e non esiste più il tempo della narrazione: lì, sotto la burrasca, devono aiutarsi per sfuggire al naufragio. A quel punto, cercano anzitutto conforto in un Kipling, in un Hemingway, un Melville e in chissà quale altro romanziere, dimenticando di avere avuto paura proprio della parola: lo dimenticano perché, adesso, sono dei narratori, sono essi stessi la storia autentica da non raccontare, quella dell’eros e della complicità, dell’eros e della comunione o, in verità, dell’eros e della fiducia.

Al ritorno dal viaggio, sono forti in quanto fieri sopravvissuti, cosicché la terraferma diventa la loro terra promessa: si sussurrano dolci e licenziose allusioni, ridacchiano e continuano a tremare; sono belli, eccitati, volenterosi.

sabato 18 gennaio 2020


12
Immaginazione


D’incanto, il silenzio calò dolcemente sui ragazzi, interrotto unicamente dai rumori dell’ambiente circostante.

<<L’amore…>> esordì Pandossa gustando una lunga pausa e socchiudendo gli occhi.      
<<L’amore comincia sempre dalla manifestazione delle nostre paure infantili. È la paura di perdersi tra i suoni e le luci di un luna park, che ci stordiscono e ci portano in giro tra altalene e pupazzi: sull’altalena ci lasciamo spingere fino al batticuore; del pupazzo imitiamo inconsapevolmente l’espressione statica e ridicola. D’improvviso, siamo presi dall’ansia febbrile di volere sperimentare tutti i giochi, senz’accorgerci d’essere avidi ed egoisti. Ci annoia pure l’attesa delle file davanti alla biglietteria. Vorremmo scalzare tutti e possedere l’intero parco dei divertimenti. Questa frenesia, però, a poco a poco, ci logora, ci fa perdere parecchie energie, fa svanire l’effetto allucinogeno, cosicché ci voltiamo alla ricerca del nostro accompagnatore e, nostro malgrado, non lo troviamo. Ci siamo perduti e facciamo fatica ad ammetterlo, ad accettarlo. Facciamo il cammino a ritroso, ma, la paura ha subito la meglio su di noi e pupazzi e altalene non ci sono più tanto familiari quanto lo erano all’inizio. Spinti dal bisogno di essere grandi e autonomi, di essere re del mondo anche per poco, abbiamo perduto di vista pure la strada di casa, di quel luogo dove una madre e un padre possono sempre proteggerci. Urliamo e iniziamo un pianto che non avrà più fine.

Crescendo, non facciamo altro che nascondere le lacrime e rivendicare sottovoce il bisogno d’una madre amante o d’un padre amante. Abbiamo paura e preferiamo anche un solo giro sulle montagne russe nella speranza di racchiudere in pochi minuti di esaltazione ed ebbrezza la responsabilità di una vita. L’amore, dunque, comincia da questa paura, che riduce il nostro coraggio fin dall’infanzia. Bisogna sapersi perdere autenticamente per imparare ad amare, perdersi in colui o colei che, pur ascoltando i suoni, sa distinguerli dal rumore, e, pur vedendo le luci, non si fa abbagliare, pur divertendosi, non ci perde mai di vista e sa sempre indicarci la via del ritorno a casa. Eppure, siamo scossi dalla memoria di un errore puerile e temiamo di vivere nell’altro e per l’altro, mistificando i nostri gesti e travestendoli d’un orgoglio inesistente, di cui non sapremmo neppure parlare.>>

<<Professore, che cos’è la sessualità, secondo lei?>> chiese una ragazza della seconda fila.

Gli uditori, frattanto, si facevano sempre più numerosi. Per la prima volta, anche gli altri docenti erano impalati ad ascoltarlo, dimentichi pure del malanimo con cui di solito gli si rivolgevano e capaci, addirittura, di tenere a bada l’invidia che li portava, il più delle volte, all’inimicizia. Augusto li notò e fece loro un cenno di benvenuto. Il preside avrebbe voluto esprimere la propria opinione; bolliva di gelosia, ma fu cauto, comprese che un suo intervento, in quel momento, gli avrebbe fatto guadagnare solo una vera e propria insurrezione.

<<La sessualità è…>> riattaccò Pandossa con la solita pausa di piacere.
<<La sessualità è, anzitutto, ciò che il nostro preside dovrebbe praticare di più!>>
Non fece in tempo ad ultimare la frase che le grida di approvazione e lo schiamazzo dei ragazzi fecero sprofondare il capo d’istituto nel baratro della vergogna. Di colpo, lo si vide impacciato, agitato, arrossato dall’ira.  Nessuno osò interrompere l’esultanza dei ragazzi. Solo Pandossa avrebbe potuto ripristinare l’attenzione, ma non lo fece. Anzi, rincarò la dose. Fu sufficiente un suo braccio alzato a mostrare il palmo della mano a che i ragazzi si disponessero di nuovo all’ascolto.

<<Ragazzi, sia chiaro: nulla di personale! Si tratta del nostro preside e abbiamo il dovere umano e istituzionale di rispettarne il ruolo e la professionalità.>>
Quest’ultima affermazione lasciò tutti un po’ perplessi, ma, secondo il codice di Augusto Pandossa, non era affatto contraddittoria. Per lui, non c’erano gli elementi per gridare allo scandalo, ravvisare moti di vendetta o la volontà di mortificare qualcuno; per la qual cosa le due affermazioni erano perfettamente e contemporaneamente valide. Abituato, com’era, a trattare le questioni con acume scientifico e attenzione analitica, isolava le dichiarazioni e le definizioni dai pareri personali. Era ben conscio che invitare il preside, in pubblico, a praticare del sano sesso avrebbe generato un certo scandalo, ma egli non possedeva la stessa misura dello scandalo.

<<Aggiungo pure che ciò che ho dichiarato è testimonianza della mia gratitudine nei suoi confronti.>>

A queste parole, un po’ tutti aggrottarono le sopracciglia ed arricciarono il naso.
<<Ragazzi, colleghi, il preside è stato così premuroso verso di me da suggerirmi un aiuto psicoterapeutico ed io, oggi, colgo l’occasione per ringraziarlo perché, recandomi dalla psicoterapeuta in servizio presso il nostro istituto, ho avuto modo di conoscere una bella donna, sebbene sia molto più giovane di me, e, in seguito alla piacevole chiacchierata, ho meditato molto su ciò che condiziona le relazioni tra uomo e donna, tra uomo e uomo o tra donna e donna. Nel vedere il preside così accigliato, stamani, ho trovato un paio di risposte alla domanda su come si possa definire la sessualità. Poco importa che la domanda mi sia stata fatta dopo. La sessualità, per chi appartiene alla nostra specie, nasce dalla stessa paura dalla quale comincia l’amore, ma è la prima tra le arti, se siamo disposti a mettere per un po’ da parte l’antropologia, senza tuttavia trascurarla troppo. Anche in questo caso, infatti, suoni e luci del luna park ci fanno diventare avidi. Anche in questo caso, abbiamo bisogno di giocare e di sentirci dire che siamo bravi. Non sempre è necessario che l’elogio arrivi dalle parole, spesso bastano le conferme di un contatto. Tanto maggiore è il numero dei contatti, quanto più bravi e forti pensiamo di essere. Qui, però, ragazzi miei, occorre prestare attenzione… perché tanto più forte è il bisogno di conferme, quanto più s’indebolisce il nostro Io. Il guaio è il seguente: sono vere e necessarie entrambe le cose! Pertanto, che c’entra il preside? E la psicoterapeuta? L’altalena tra bisogno di contatto fisico e indebolimento ci induce a proiettare sugli altri la nostra incapacità di equilibrio. Si finisce col vivere d’immaginazione e col pretendere dagli altri ciò che, in realtà, pretendiamo solo da noi stessi. Ecco! Ci vuole una ridefinizione: la sessualità è, prima di tutto, immaginazione. Presumo che il preside si sia ritrovato in questo stato d’angoscia o di scompenso e abbia voluto trasferire su di me un proprio bisogno. Io non posso che essergliene grato perché, grazie a lui, ho arricchito il mio pensiero, non la mia immaginazione, che ha diversa natura, si badi bene!>>.

Finito che ebbe di pronunciare la parola bene, sentì un tremito interiore, una specie di sussulto che ne arrestò la verve oratoria. S’appoggiò allo schienale e s’abbandonò a uno sguardo amorevole e trasognato, ma che fendeva attentamente la folla, fino a scavalcarla. Riconobbe il profilo della figlia, Eleonora, la quale a ridosso degli studenti, stava abbracciando calorosamente la psicoterapeuta dell’istituto, quella bella donna della quale egli aveva appena parlato. Le due donne, evidentemente, erano vecchie amiche. Il loro affiatamento era intuibile anche a distanza. Di occhio in occhio, gli sguardi si concentrarono tutti sulle due figure. Su quel piccolo mondo scese avvolgente una suggestione fiabesca. Augusto, per primo, si sentì incalzato a sottrarre al maligno l’anello magico per la liberazione della principessa.

***

All’immaginazione si è soliti assegnare una copula, un aggettivo che ce lo faccia apparire familiare e, di conseguenza, un giudizio: nel dire “l’immaginazione è…”, si elabora già una promessa di conforto per sé stessi, ma non ci si rende conto di contrarre un grosso debito nei confronti di ciò che noi siamo e, soprattutto, nei confronti di ciò che vogliamo, poiché l’annunciazione di un bisogno, prima o poi, si muta nel bisogno stesso. Di fatto, quest’abitudine di tracciare confini netti e aritmetici, false traiettorie euclidee e ponti cartesiani pericolanti diventa persona e atto, ogni qual volta in cui siamo costretti a scegliere e, nello scegliere, a servirci della deduzione, cioè a osare. Dunque, anzitutto e per lo più, l’immaginazione è giudicata, è forzato a diventare una categoria linguistica, è privata di quell’unico significato che possiede: il costituire un nostro modo d’essere nel mondo, per dirla con Heidegger.

All’inizio d’una qualsivoglia relazione, per esempio, uno dei due amanti, specie a causa del terribile esordio, vive di timori e dubbi, cosicché, se invia un messaggio compromettente, teme di aver alterato l’equilibrio intimo, e, se non lo invia, teme d’aver sottratto alla relazione un che di prezioso.  In entrambi i casi, si dubita della propria correttezza, generando un rinvio febbrile del godimento e cominciando a elencare parole per definire le ore o i giorni che passano prima del nuovo incontro. Non si comprende che il linguaggio non serve a dare definizioni perché la definizione appartiene a ciò che è universale, mentre ciò che noi siamo e vogliamo è ‘particolare’. Chi ne fa uso con consapevolezza e maestria non corre alcun rischio e non potrà mai minacciare il benessere altrui, pur nella clandestinità e nella violazione dei postulati sociali e religiosi, non perché sia un accademico raffinato, ma perché eviterà sempre di dare definizioni.

Quante volte, durante i primi incontri, un uomo avvicinando la propria bocca a quella della donna, nel tentativo di baciarla, s’è sentito dire “non è il momento giusto”? Ecco, questo dire che ‘qualcosa è o non è’ determina la promessa di conforto, uno snaturamento dell’immaginazione, laddove baciarsi sarebbe l’unico vero e possibile conforto: nulla esiste, fuorché nell’atto e nell’uso. Noi siamo amanti, nel momento i cui ci baciamo, ci attacchiamo gli uni agli altri famelici; non già quando pensiamo di esserlo. Attaccati gli uni agli altri viviamo la nostra immaginazione; altrimenti, ci annulliamo, scompariamo. Il rinvio della donna, probabilmente, è solo una ricerca di significati e conferme, che, tuttavia, ella già possiede semplicemente per averle incluse nella propria dichiarazione. Meglio allora lasciare intravedere i seni dalla scollatura che dire ciò che giusto e ciò che non lo è.



sabato 11 gennaio 2020


11
Libertà


Intorno alle sette del mattino, Augusto Pandossa s’incamminò verso il liceo. Procedendo a sghimbescio, era goffo, senza perdere grazia. Ridacchiava all’idea di ciò che, di lì a poco, sarebbe accaduto; guardava di sottecchi la strada, ma non perdeva di vista il tavolino, che abbracciava con tale premura che tutti i passanti, incuriositi, ma esitanti, rallentavano il passo per prendere parte alla misteriosa scena: un uomo d’ammirevole portamento, curato, ben vestito, stringeva al proprio petto le gambe di ferro battuto d’un vecchio tavolino dal ripiano verdognolo, sul quale poggiava il mento, ancheggiando alquanto a reggerne il peso e non lesinando affatto ammiccamenti e strizzatine d’occhio verso gli spettatori.

Gli uomini sono capaci di trasformare in mistero l’ovvietà; vivono nella speranza d’uno scandalo da osservare, giudicare e riferire al solo fine, di cui la maggior parte di loro non è cosciente, di dare senso e significato a una vita fatta di pura evasione da sé. Costoro sanno di non potere essere protagonisti dell’evento straordinario, ma la sensazione della vista e l’uso della parola quale espressione della loro semplice presenza li eccita, li mantiene in vita fino all’episodio successivo, dissimula il lutto della prematura perdita della loro personalità, lutto mai elaborato, mai sottoscritto, ma che li ha sorpresi già in tenera età, tra la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta.

Accade così che un Pandossa, uno schizofrenico o un incidente mortale all’angolo d’una strada qualunque sono assimilati al gesto atletico del grande calciatore o al magistrale verso del poeta, che incantano e mandano in visibilio gruppi indistinti di uomini e donne smaniosi d’appartenere alla storia, frustrati dalla propria impalpabilità e che finiscono col diventare fasi di quegli stessi eventi di cui sono bisognosi. Tra un evento e l’altro, essi sperimentano il ricordo come premessa dell’attesa e fanno della propria memoria un laboratorio di sperimentazione: raccontano più volte, a sé stessi e agli altri, fino all’estenuazione, ciò che hanno visto; essi sono semplicemente testimoni; ogni narrazione è sempre più ricca, ma sempre più sofferta perché ogni aggiunta mendace e ogni sfumatura corrispondono a una privazione: raccontano non solo e non già ciò di cui avrebbero voluto essere attori, ma anche ciò che avrebbero voluto fare e che non hanno avuto il coraggio di fare. Menzogne e sfumature denunciano la loro sensazione di morte imminente. Il conflitto, poi, assume dimensioni spropositate e diventa incontenibile. Quando la fantasia non ha più la realtà come sostegno, quando non c’è più alcunché da inventare perché il tempo tra gli eventi è talmente lungo da indurre episodi depressivi, allora il disagio diventa collera e qualcuno deve pagare. Il primordiale istinto d’uccidere deve essere, per così dire, razionalizzato e qualcuno deve fungere da capro espiatorio.

Tutto ciò – con riferimento al nostro – non implicava che chiunque lo incontrava volesse passeggiare abbracciando un tavolino o smaltarsi le unghie di rosso rubino, sia chiaro!  Pandossa era un raffinato conoscitore di queste bizzarre manifestazioni della mente e, molto di frequente, giocava d’azzardo, anche cinicamente, sfidando direttamente l’inconscio. Col tempo, col quale s’era alleato, aveva anche imparato a separare perentoriamente e con rigore marziale, la vita privata, emotiva, intima, da quella pubblica sociale, nella quale era spesso buffonesco e felice d’interpretare, talora, un personaggio brechtiano, talaltra, un personaggio beckettiano, non disdegnando affatto sortite alla Tennessee Williams, quale ispettore dello zoo di vetro attraverso il quale si mettevano in mostra solamente animali imprigionati e feriti.

Giunse davanti al liceo sudaticcio e se ne infastidì. Sistemò il nuovo banchetto per la didattica quotidiana sul marciapiede, si tolse il soprabito beige, ripiegandolo accuratamente, e allentò il nodo della cravatta. Non gli piacque molto l’idea d’apparire dimesso o sportivo, ma si sottopose con scioltezza alla pratica ed alla desueta immagine. Si guardò intorno e incontrò solamente visi pallidi di studenti sonnecchianti. Il torpore inciso su quei volti, che, fin dal mattino, rivelavano freddezza, disinteresse, noia e chissà quante altre forme di distacco dal mondo, lo indispettiva; non si capacitava della difficoltà con cui alcuni adolescenti, di mattina, si staccavano dal letto. Gli sovvenne un discorsetto fattogli qualche giorno prima da una studentessa a proposito della scrittura e degli scrittori.

Il professore, in quell’occasione aveva parlato del metodo e del rigore degli studi, puntualizzando anche l’importanza della disciplina, della sveglia mattutina et cetera. La ragazza, su per giù, era intervenuta in questi termini: <<Scrivere non dovrebbe essere un amore, un passatempo, uno staccarsi dal mondo intero, chiudersi in una stanza al buio e mettere giù tutto quello che si pensa e che si vive? Dalle sue parole non sembra cosi! Io, da giovane studentessa, scrivo, ma più che altro compongo frasi, poche pagine. Per me è tanto, è qualcosa di mio. Questo mi fa stare bene! Se alzarsi alle cinque per scrivere la fa stare bene, per carità, non la giudico, ma se lo fa per le scadenze, per obbligo, non la vedo una cosa giusta!>>. Pandossa, di primo acchito, avrebbe voluto picchiarla. Poi, insultarla. Da ultimo, aveva fatto prevalere l’istinto paterno e la propria funzione di educatore. Non c’era dubbio che scrivere fosse un atto d’amore, ma egli aveva intuito di non potere rispondere autenticamente, se non con una suggestione che sperava fosse accolta. Aveva raccontato loro un aneddoto della prima guerra d’indipendenza. <<Nel 1848, Carlo Alberto, alla guida dell’esercito piemontese, oltrepassato il Ticino nei pressi di Pavia, si diresse alla conquista d’una patria che non c’era contro l’imponente esercito austriaco di Radetzky. L’avanzata non fu delle migliori, tanto che gli austriaci, provenendo dal Nordest, attraverso Vicenza, riuscirono ad appostarsi anzitempo entro le città del cosiddetto quadrilatero, Peschiera, Verona, Legnano e Mantova e, soprattutto, ad aggirare con una tattica brillante la colonna piemontese. Essi, anziché proseguire solo lungo l’asse Verona-Custoza, effettuarono una diversione in direzione di Mantova così da stringere in una tenaglia gli avversari, che, a quel punto, erano destinati a morte sicura. In aiuto di Radetzky, giunsero, infatti altri ventimila austriaci. Qualcuno, però, s’immolò per la libertà. Qualcuno rinunciò consapevolmente alla propria vita a vantaggio della vita altrui. Presso Curtatone e Montanara, tra Mantova e Goito, un gruppo di volontari, la maggior parte dei quali era costituita da studenti delle università di Siena e Pisa, scelse di fare da scudo umano, facendosi massacrare, pur di concedere a Carlo Alberto il tempo per il ribaltamento del fronte d’attacco. Grazie a quel gesto, quasi inenarrabile, gli austriaci furono battuti a Goito. In seguito, cadde anche la fortezza di Peschiera.>>. Prima di congedarsi dagli studenti, il professore aveva citato i versi di Dante: <<Libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.>>.

Pensò, istupidito e commosso, a tutte le volte in cui aveva narrato questo evento; non riuscì a stimare neppure una minima porzione della propria incommensurabile caparbietà. Crollò le spalle e s’infilò in istituto, marciando con risolutezza verso il proprio armadietto, allineato, suo malgrado, con quello dei colleghi, che quella mattina non salutò. Prese alcuni libri, un po’ di fogli formato A4, del nastro adesivo, un pennarello e uscì sotto lo sguardo incredulo del preside, già impazientito e allarmato. All’uscita dall’edificio, dal quale aveva appena prelevato una sedia, andò ad allestire la postazione. Sulla colonna ai piedi della quale aveva preso posto, appese due foglietti. Sul primo scrisse Lezione Alternativa sull’Amore. Sul secondo: si ringrazia il Bar Pino per la concessione del tavolino. La rima lo divertì, quantunque banale. Frattanto, gli studenti, attratti dalla commedia e sicuri che il professore non li avrebbe delusi, cominciarono ad accalcarsi frenetici attorno a lui, borbottando e ridacchiando, ma contemplando Pandossa con intima reverenza. A poco a poco, infatti, senza che qualcuno desse loro indicazioni, si misero a sedere in cerchio, tra il marciapiede e la strada. Ebbene, Augusto Pandossa aveva deciso di tenere la propria lezione al di fuori dell’edificio scolastico.

***

La debuttante è sensuale, procace, irresistibile, ma, nello stesso tempo, è stonata e sgraziata; non azzecca una nota fin dall’ouverture e ancheggia come una gatta famelica. Il pubblico in sala borbotta malevolo e insoddisfatto, s’indispettisce, protesta, ma lo fa sottovoce. Nessuno osa gridare allo scandalo perché la bellezza della cantante sembra avere la meglio sui meriti artistici richiesti. Dunque, uno scandalo nello scandalo, sebbene il compromesso che ne scaturisce sia assai delicato e pericolante. A un certo punto, dal loggione si leva un fischio tanto volgare quanto penetrante: n’è autore un giovinastro spavaldo, il quale, poco dopo, urla: - Che gran femmina! -. L’intera platea resta basita, quasi avesse ricevuto un pugno allo stomaco. Tutti tacciono, cosicché l’eccitante e noncurante protagonista continua a cantare. Passato l’imbarazzo, arrivano pure i consensi bisbigliati. In effetti, è talmente bella che le donne ne hanno invidia e gli uomini vorrebbero giacere con lei. Di certo, il primo atto si conclude con un applauso.

Il sunto narrativo ci rinvia a Nanà, romanzo di Zola pubblicato sul finire del diciannovesimo secolo; la metafora che da esso traiamo, tuttavia, ci condanna all’inadeguatezza erotica e all’ignoranza del ritmo licenzioso di cui il nostro corpo ha bisogno. Educati in modo militaresco alla ricerca della perfezione, vogliamo vedere volare colombe bianche dappertutto, dimenticando che solo un vero serpente può stringersi con forza attorno a un albero massiccio. Pretendiamo la luce del sole quale benedizione eterna e inoppugnabile, trascurando che solamente le nubi contengono l’acqua purificatrice e rigenerante. Finiamo troppo spesso con l’essere parolai e ciarlatani, capaci esclusivamente di grandi dichiarazioni, smarriti nella fiabesca consacrazione di entità intangibili: ‘famiglia’, ‘amore’, ‘rispetto’, ‘fedeltà’ et similia; le quali cose s’impongono come disvalori non perché lo siano effettivamente, ma perché, in verità, sono vissute come principi da preservare e difendere. Se tutto ciò ha bisogno d’essere preservato e difeso, allora è probabile che sia sempre sul punto d’essere distrutto.

Eros è imperfetto, è figlio di Ricchezza e Povertà, ce lo dice Platone, quel Platone cui è stata attribuita maldestramente e impunemente una sensualità pallida e smorta e di cui sicuramente non s’è letto il Simposio. Eros è anche un ladro, ruba ciò che gli manca, come noi desideriamo ciò di cui siamo privi, ma non se ne vergogna, non si fa scrupoli perché è buono e cattivo, sa di dover stare in quel mondo mediano in cui non si è mai ricchi, pur avendo tante risorse, e non si è mai poveri, pur essendo fondamentalmente pieni di beni.

Gli amanti, quale che ne sia l’accezione, matrimoniale, extraconiugale, occasionale, devono sapersi spogliare tra le ombre altrui, devono essere in grado d’insinuare una mano sotto il tavolo alla presenza di commensali ignari, devono essere capaci di trasformare il sedile d’un auto in una suite imperiale. Gli amanti sono un compromesso esemplare, uno dei pochi grazie ai quali l’esistenza è fenomeno affascinante.      

sabato 4 gennaio 2020


10
Solitudine


La luce è un fenomeno imprevedibile. Ci investe in un volo di cui siamo partecipi, ci trascina, eppure non ci stanchiamo di dichiararci immobili. Talvolta, la scopriamo nelle pieghe d’un corpo e ne siamo eccitati, ma non ci avvediamo che la porzione illuminata, lo spazio in cui qualcosa prende vita, è la sola probabilità d’esistere che ci spetta. La riconosciamo in chi ci sta innanzi e ci rifiutiamo di accettare che prende le forme che noi a essa attribuiamo. La probabilità è, pertanto, percepita come una specie di dannazione, una dannazione innominabile. Ci spostiamo gli uni verso gli altri a imitare figure assenti o, forse, più che assenti, sarebbe corretto dire figure inesistenti, leggendarie, provenienti dai miti della nostra infanzia, storie di eroi che ci portiamo appresso, come fossero soprabiti che rechiamo sottobraccio. Indossarli comporterebbe disagi d’ogni genere: la taglia non sarebbe mai quella giusta; spesso, anzi, è più grande di almeno due volte; il tessuto sarebbe inadatto al clima, tanto da farci avvampare di calore; saremmo goffi e ridicoli, ce ne vergogneremmo. Allora, per quale ragione ci ostiniamo a non gettarli via? Anzi, perché ci affanniamo a provare anche i soprabiti altrui?

Quella mattina, Augusto si sentiva preda e, nello stesso tempo, cacciatore. Si mise a passeggiare lentamente per la casa. Di stanza in stanza, la penombra gli faceva avvertire come dirompente la nostalgia di un corpo femminile. Intrappolato in una caverna archetipica, riusciva a balzarne fuori solo per pochi istanti, tempo durante il quale si vedeva nudo, piccolo e indifeso. Patrizia non era stata altro che la probabilità d’un ritrovamento. Patrizia, tuttavia, non era quella metà psico-fisica che egli era solito dipingere di rosso rubino in memoria dell’amante, moglie e madre perduta.  La sua limpida perspicuità non lo tradiva quasi mai; con sé stesso era altrettanto arguto, pugnace e graffiante quanto lo era con gli altri. Riaccompagnarla a casa, dopo quella notte, non era stato solo un gesto come tanti altri. La schizofrenia della donna, per lui, non era stato affatto un impedimento. Anzi, per certi aspetti, non se n’era mai curato.

Augusto Pandossa aveva un singolare pregio: sapeva di sé e ciò gli era utile a sapere anche degli altri. La camminata mattutina, al risveglio d’un giorno qualunque, fu un’incursione nella memoria, non nella memoria della lontananza e dell’assenza, ma nella memoria della presenza tangibile, di quelle visioni dalle quali la sua vita traeva origine ed energie. Procedeva a occhi chiusi e con particolare circospezione, sembrava impegnato in uno strano rituale: s’avanzava poggiando la punta del piede sinistro e, prima di sollevare l’altro piede, si metteva in ascolto, per un paio di secondi e non oltre, dell’impercettibile rumore del calpestio, come a gustarne l’evocazione.

Eleonora non c’era. Neppure lei. Sentì il bisogno di stringere a sé la figlia, che non incontrava ormai da parecchio tempo. Beatrice non c’era da vent’anni, sottrattagli da un male ignoto. Queste figure prendevano posto tra i suoi pensieri secondo il ritmo dei passi. Cercò una seggiola e si sedette per meditare sulla solitudine come condizione dell’esistenza, sforzandosi di osservarsi come uomo solo, ma non riuscì ad avvilirsi o a collocarsi in quella definizione, anzi, tanto più pensava al proprio isolamento quanto più si faceva beffe di chi lo giudicava emarginato; il che era un bel guaio, a dire il vero, perché escogitava sempre nuove burle a scapito di chi faceva di tutto per screditarlo.

Di fatto, il professore era, per così dire, un personaggio imbarazzante, a tratti, anche esasperante. Lo era principalmente perché nell’imbarazzo e nell’esasperazione che generava egli trovava diletto e appagamento. La donna di cui aveva bisogno, in sostanza, non c’era, ovvero, diversamente, aveva bisogno di una donna che non voleva al proprio fianco. Era fanciullesco, nella manifestazione del bisogno d’una figura che si prendesse cura di lui; inerme unicamente perché accettava di buon grado l’insoddisfazione, senza alcun moto di ricerca.

Dalle imposte non gli giungeva luce. Si rese conto d’essersi alzato più presto del solito, pur essendo smanioso di recarsi al liceo. Abbandonò in fretta la postazione, si vestì e scese per le strade. Lesto, s’avviò verso il bar dell’angolo, dove s’infilò a capo chino un po’ infreddolito.

<<Professore, buongiorno! Come mai a quest’ora?>> esordì il barman.
<<Come mai a quest’ora? Pino, che domanda è? Cosa vuoi sapere?>> rispose Pandossa, sempre mordace con inappuntabile rispetto.
<<Professore, lei è sempre il solito!>> aggiunse il barman sorridendo.
<<A dire il vero, non sono sempre il solito. C’è da impiccarsi ad essere sempre i soliti tutti i giorni.>> continuò il professore
<<Come posso darle torto!>>
<<Cerchiamo di capire! Poco fa, hai detto che sono sempre il solito. Poco dopo la mia battuta, invece, hai dichiarato il contrario, dandomi ragione. In pratica, secondo te, io dovrei impiccarmi?>>
<<Professore, lei, con questi giri di parole, è pericoloso. Cosa prende? Caffè?>>
<<No, mio caro! Un tavolino, se me lo concedi.>>
<<Come? Un tavolino?>>
<<Sì, un tavolino. In prestito, s’intende. È così strano? Ci conosciamo da tempo ormai. A chi dovrei chiedere un tavolino in prestito, se non a te?>>
<<Certo, professore! Glielo presto pure, di cuore, ma che…>>
<<Pino, mi serve un tavolino. Punto! Sta’ tranquillo ché ti farò buona pubblicità! Scriverò qualcosa con cui ringrazierò il Bar Pino per la gentile concessione del tavolino!>>
<<Professore, faccia pure! Mi sento onorato.>>
<<Bene! Allora, prendo questo. A presto e grazie!>>

***

Ogni storia comincia in questo specifico e quasi alienante modo: senza cominciare davvero. Quando ci accorgiamo che ci è sfuggito il cominciamento, è sempre troppo tardi. Ci si serve dell’approssimazione per dissimulare la sacrosanta concupiscenza; ci si nasconde nel soprabito, si guarda l’altro di sottecchi o in tralice, si trattiene l’acquolina, anziché deglutire, per poi spalmarla sulle labbra, confidando che l’altro studi scrupolosamente ogni nostro movimento; ci scopriamo abili a predicare in toni mistici e ascetici perché la nostra mano, allungandosi invano, non afferra quei fianchi. Ci dedichiamo, in pratica, all’attesa d’un cedimento, finendo col far soccombere la nostra stessa volontà.

Vorremmo essere avvolti e storditi da ampie volute di vapori medicamentosi e oppiacei al solo scopo di svegliarci nudi, stanchi e soddisfatti, tra le sue braccia e – perché no? – dentro una vasca colma di acqua calda, balsami e sali. Sentiremmo il sapore della fisicità, anche se dovremmo piangere di codardia per avere accettato il trionfo della sessualità narcotica. Abramo continuò imperterrito a negoziare la pace per Sodoma e Gomorra, pur sapendo che l’Altissimo Tribunale non gliel’avrebbe mai concessa, ma noi sappiamo solo dire che Abramo è un Padre, non corriamo il rischio del gran rifiuto. Achille ebbe Briseide per sé, nella propria tenda, dopo aver conquistato intere città, ma noi sappiamo solo dire che Achille era un eroe, non impugniamo la spada né versiamo sangue. Cristo fu riconosciuto quale Maestro eponimo dello spirito perché riuscì a rinunciare anche a sé stesso, ma noi sappiamo solo dire che è Egli un esempio, non prendiamo parte al banchetto di prostitute e barboni.

Noi sappiamo solo dire che qualcuno merita un privilegio o, diversamente, una lode speciale; tuttavia, nello stesso momento in cui lo diciamo, lasciamo morire nel linguaggio ogni principio d’azione, convinti, tra le altre cose, di aver agito e d’averlo fatto nel migliore dei modi possibili. La donna si fa sbirro togato e si compiace della privazione non perché la reputi sana e prudente, ma perché non vede l’ora di conoscere il nome da assegnare a ciò che smania di possedere. L’uomo, invece, allestisce spettacoli circensi per la propria vista, così da persuadersi d’esser sempre stato protagonista, d’esser stato il decisore occulto.

Gli amanti, quelli veri, quelli che possono fare a meno di inni e musichette, sanno far l’amore pure nei peggiori bar d’un quartiere malfamato, senza perdere mai grazia e riservatezza, giacché hanno cominciato a conoscersi – loro e non altri – toccandosi.


venerdì 27 dicembre 2019


9
Amplesso


Si diceva che la donna, già affetta da disturbi della personalità e, più volte, ospedalizzata in preda al delirio, dopo il terribile lutto, avesse subito un devastante peggioramento, a causa del quale era stata vista parlare animosamente con la figlia defunta sul posto di lavoro, dal quale successivamente era stata allontanata. Le allucinazioni e i deliri non l’avevano privata del tutto di lucidità e autonomia; anzi, in qualche modo, l’avevano consegnata a uno stato di fiabesca beatitudine in cui ella era persuasa di avere ritrovato la figlia. Di conseguenza, le sue movenze e il suo linguaggio s’erano ricostruiti alla luce di un candore incorruttibile; ogni suo gesto e ogni sua parola erano sospinti da una spontaneità primitiva, una forma di purezza estranea anche al più audace degli avventurieri dell’intelletto, al più sincero dei poeti.

Augusto Pandossa la trovò splendida nella sua carnalità sublimata. Le lasciò fare ogni cosa, senza parlare né tentare d’influenzarne il comportamento. Ne contemplò i tratti fisici fin dal momento in cui ella si fu incurvata sulla nota della spesa, come se fossero i confini d’una terra promessa ormai prossima. Le ciocche di capelli cascanti sulla fronte gli erano parse veli preziosi d’un sipario aperto sui lavori di bulino e cesello d’un ritrattista guidato da Dio. Nel suo volto, per lo più assente, aveva visto una gemma lavorata a rilievo: i grandi occhi verdi, il piccolo naso all’insù, la modesta sporgenza degli zigomi e il turgore delle labbra gli avevano fatto rilevare una divina proporzione.

Quasi mai, negli anni successivi alla morte della moglie, Augusto Pandossa aveva dedicato a una donna tanto riguardo e altrettanto raramente s’era lasciato suggestionare a tal punto da provare immediata eccitazione. Quand’ella lo ebbe preso sottobraccio, egli si sentì deliziosamente torturato da quelle unghie tinte di rosso rubino che, in cerca d’alloggiamento tra il fianco e il rilievo esterno del muscolo dorsale, sembravano ghermire una corporeità fin troppo acquiescente. Ritrovandosi accanto a lei, quale elemento naturale d’una coppia di coniugi, Augusto non aveva potuto fare a meno di smarrirsi nel decolleté improvvisato da un paio di bottoni abbastanza cedevoli della bianca camiciola di seta indossata dalla donna.

Si chiamava Patrizia ed era stata compagna di classe di Augusto fin dai tempi del ginnasio.

L’età non ne aveva affatto alterato la generosa sensualità, che si espandeva virtuosamente in forme vistose ma non troppo, eleganti, scultoree anche nelle imperfezioni causate dal tempo. La gonna nera che scendeva giù da una cintura beige elasticizzata e affibbiata sul basso ventre, giungendo a malapena alle ginocchia, spronava ulteriormente la fantasia erotica del professore, che si tratteneva a fatica dal lasciare che le proprie mani scorressero liberamente sul corpo della donna. E inoltre, l’alienazione patologica dal mondo faceva di Patrizia, agli occhi di Augusto, un personaggio d’una commedia greco-classica che aveva il potere di stare tra gli uomini e gli dei, senza tuttavia doversi commisurare agli uni o agli altri.

Esausto di piacere, Augusto staccò la mano dal braccio di Patrizia e la fece scivolare sul fondo schiena di lei, facendola aderire pienamente alla parte alta dei glutei. Ella si girò di scatto a fissarlo e, stirando verso l’alto la parte sinistra del volto, dall’arcata sopraccigliare all’angolo della bocca, fece una risata altera e di compiacimento il cui suono somigliava a un cenno di vocalizzo d’un soprano. Augusto ne fu rincuorato e insistette a toccarla, rassicurato dalla copertura del cappotto di lei.

<<Vieni da me!>> le disse d’improvviso, non senza un tremito d’ansia.
<<Buon uomo, voi mi affascinate!>> rispose lei in un eloquio drammaticamente disorganizzato. <<Ma l’uomo che m’attende non sa ancora abitare il centro della casa. E anche se so d’essere esistita solo io nell’incognita d’una vita reale o coniugale, resto promessa a quell’uomo. Sono una sacerdotessa del centro della casa.>>.
Bombardato da un’incredibile quantità di stimoli linguistici e figure del significato, Pandossa, che non si sentiva affatto in imbarazzo, sottolineò con arguzia: <<Si dà il caso, mia cara Patrizia, che anch’io abbia il centro della casa e lì t’ho attesa per anni, fin dai tempi del ginnasio.>>.
<<In questo caso la realtà è ideale.>> aggiunse lei con inspiegabile intraprendenza e continuò: << È irremovibile la mia presenza nel mondo uterino dei centri della casa. Lo dico spesso anche a mia figlia: - Non fare molti esami, se poi non esisti come esaminata! -.>>.

Udendo il termine “figlia”, Augusto avvertì una sensazione di scoramento, non riuscendo a conciliare il proprio desiderio con quella maternità smembrata e disperata. Avrebbe rifatto il cammino della seduzione a ritroso, se non fosse stato certo che quel tentativo di conquista era stato animato, fin da principio, da un sentimento unico, quantunque ancora ignoto, ma dirompente, mai provato in tutti gli anni della vedovanza, difficile addirittura ad accettarsi come tale nella banalità di un pomeriggio trascorso al supermercato. Si chiedeva, infatti, con insistenza, se fosse possibile affermare d’amare una donna in quel modo. Egli voleva Patrizia tutta per sé. Non era di certo disposto a dividerla col marito o ad accontentarsi della clandestinità, resa peraltro impossibile dalle condizioni mentali della donna.
<<Il mio intelletto perdeva sangue, quel giorno… La mia bambina aveva deciso di sostenere un altro esame…>> soggiunse lei flebilmente e rabbuiandosi.

Egli le prese il volto tra le mani e le diede un bacio sulla fronte, un bacio che rasserenò Patrizia, la quale appoggiò la testa sulla spalla di lui e si lasciò trascinare in silenzio. Augusto Pandossa toccava il cielo con un dito. Patrizia era la compagna di vita ritrovata: con un violento accesso d’egoismo lodò le virtù della schizofrenia, che considerò uno scudo contro le avversità del mondo esterno. Scosso dalla passione, il professore condusse Patrizia fuori dal supermercato. Ella non protestò, lo seguì affabilmente. Poi, salirono sull’autobus e, in poco meno di mezz’ora, furono sulla soglia dell’appartamento di lui. Egli se ne fece servitore, riservandole ogni premura. La fece accomodare sulla propria poltrona e la invitò ad assumere la posa che giovasse maggiormente al suo benessere. Le chiese se avesse fame e cosa desiderasse, così da prepararle qualcosa di prelibato, ma ella, in risposta, improvvisò uno strano canto il cui ritornello era: “l’uccellino vien cantando”. Egli s’inginocchiò ai suoi piedi e la ascoltò con religiosa devozione.

Alla fine del canto, Augusto le prese le mani e ne contemplò, eccitato e commosso, il rosso rubino delle unghie. Iniziò a baciargliele e ad accarezzarle con la punta della lingua. Con una certa mollezza, ella gliele porse, quasi fossero doni votivi, ma, sporgendosi in avanti, gli fece capire di pretendere un bacio. Si baciarono con delicatezza, lentamente, gustando ogni passaggio di quel contatto. A poco a poco, abbandonarono sul pavimento tutti i vestiti e si accompagnarono vicendevolmente in camera da letto. Patrizia si distese goffamente sul letto, assumendo una posizione perfettamente retta e in linea col piano d’appoggio. Augusto ne rise dolcemente e le si sedette accanto, senza mai smettere di toccarla, senza mai rinunciare a procurarle piacere. Quella donna, si disse, lo avrebbe amato solo nell’accoglierlo dentro di sé. Il suo sguardo, chiaramente infisso al tetto, e la sua immobilità avrebbero potuto trarlo in inganno, ma le vibrazioni del corpo e l’espressione di quel viso rapito dalla letizia e dalla piacevolezza erano limpide testimonianze di attaccamento a quella forma di vita. Le si mise addosso, invitandola a divaricare le gambe. Tentò di catturarne lo sguardo, ma non ottenne successo. Si decise, non senza esitazione, a penetrarla. All’inizio, fu difficile muoversi dentro di lei, senza sentirne le spinte pelviche, cosicché Augusto stentò a goderne. Poco dopo, però, egli fu costretto a fermarsi. Patrizia lo aveva stretto a sé con tale forza e con tale vigore lo esortava a continuare che, sulle prime, Augusto aveva temuto che qualcosa d’ignoto o allucinatorio stesse per portargliela via. Fu un vero e proprio rapporto d’amore, al termine del quale egli si prese cura del suo riposo. La accompagnò in bagno, la lavò e la riportò a letto. Rimboccatele le coperte, le si mise accanto e la vide dormire per tutta la notte.

***

Bisogna ammettere che la maggior parte del nostro desiderio oscilla inelegantemente tra le rinunce e lo spreco, tra le figure della speranza e quelle dell’afflizione; in poche e povere parole, esso è nevrastenico. Lo è, in primo luogo, perché nessuno di noi possiede più lo spirito messianico e la furia dell’eroe cavalleresco a capo dell’avanguardia. In secondo luogo, è così e non può essere altrimenti perché - per dirla con Platone - siamo imitatori delle cose reali: avere un’intuizione su qualcuno che possa farci godere per noi significa iniziare un cammino a ritroso alla ricerca di predicati e nomi protettivi, rifuggendo dagli aggettivi, spesso troppo impertinenti e ambigui. Ciò che per natura è protettivo è, nello stesso tempo, narrabile, si può, per l’appunto, raccontare ad altri e si sa che non c’è alcunché di più confortante e rassicurante quanto il poter dire qualcosa a qualcuno. Non siamo fatti per custodire un segreto, laddove l’intuizione non è altro che un segreto, un che d’inenarrabile, specie quella che ci conduce rapidamente all’eccitazione. 

Noi, di fatto, siamo tutti ‘sposati’, lo siamo anche quando non lo siamo per legge: siamo sposati per genesi e ontologia; è connaturata in noi l’idea di essere bravi e buoni e la presenza, istituzionale o fittizia, di qualcuno che faccia da barriera morale ci aiuta a non morderci troppo spesso le mani per via di tutte interruzioni di cui siamo responsabili, interruzioni che, in realtà, sono delle piccole morti. Sappiamo di non essere d’accordo con noi stessi, ma questo sembra non contare molto.

Dunque, battute su battute e la chat è gremita, più di fantasie che di promesse incrollabili: il collo non s’umetta né le pelvi s’incontrano. È così che ogni bacio e ogni incontro sono rinviati affinché si continui a dire di avere resistito fieramente e santamente. Occhi, glutei, piedi, seni, mani e cosce sono confinati nella distanza e ciò che s’intuisce come piacevole è respinto. Questo preludio d’eros equivoco è solo la metamorfosi dell’attesa che qualcosa accada, di una mano che incontri la nostra, di uno sguardo che si fissi sul nostro viso, di labbra che percorrano i nostri confini.

Eppure, in queste condizioni, siamo piuttosto sicuri di non poter essere mai sicuri. Attendere qualcuno è un po’ come cercare il volto di Dio tra i viandanti di un mercato: passeggiamo guardinghi e ansiosi, sbirciamo di sottecchi forme e colori; percepiamo che è vicino a noi, ma non lo è tanto da essere abbracciato e baciato; siamo coscienti che sia lontano, ma lo è tanto da essere aspettato a lungo. Ogni sfioramento e ogni fortuito toccamento ci fanno sussultare di piacere. Nella casualità del gesto, possiamo ancora appellarci all’inconsapevolezza, perderci ancora nell’alibi dei tanti impegni mondani, nella pretestuosa dichiarazione di sazietà sessuale o nell’alleanza coi tempi dei biblici rinvii.

Prima o poi, pollice e indice si stringeranno sul bottone e l’asola non resisterà allo stesso modo in cui abbiamo fatto noi in precedenza - ne siamo consapevoli, in fondo -. Le parole non morranno più di similitudini e liturgie, scomparendo, schiacciate semplicemente tra la bocca e l’inguine. A quel punto, per poter tentare un’altra fuga dovremmo essere in grado di assegnare all’orgasmo predicati e nomi perfetti, tuttavia verranno fuori solamente aggettivi.