venerdì 27 dicembre 2019


9
Amplesso


Si diceva che la donna, già affetta da disturbi della personalità e, più volte, ospedalizzata in preda al delirio, dopo il terribile lutto, avesse subito un devastante peggioramento, a causa del quale era stata vista parlare animosamente con la figlia defunta sul posto di lavoro, dal quale successivamente era stata allontanata. Le allucinazioni e i deliri non l’avevano privata del tutto di lucidità e autonomia; anzi, in qualche modo, l’avevano consegnata a uno stato di fiabesca beatitudine in cui ella era persuasa di avere ritrovato la figlia. Di conseguenza, le sue movenze e il suo linguaggio s’erano ricostruiti alla luce di un candore incorruttibile; ogni suo gesto e ogni sua parola erano sospinti da una spontaneità primitiva, una forma di purezza estranea anche al più audace degli avventurieri dell’intelletto, al più sincero dei poeti.

Augusto Pandossa la trovò splendida nella sua carnalità sublimata. Le lasciò fare ogni cosa, senza parlare né tentare d’influenzarne il comportamento. Ne contemplò i tratti fisici fin dal momento in cui ella si fu incurvata sulla nota della spesa, come se fossero i confini d’una terra promessa ormai prossima. Le ciocche di capelli cascanti sulla fronte gli erano parse veli preziosi d’un sipario aperto sui lavori di bulino e cesello d’un ritrattista guidato da Dio. Nel suo volto, per lo più assente, aveva visto una gemma lavorata a rilievo: i grandi occhi verdi, il piccolo naso all’insù, la modesta sporgenza degli zigomi e il turgore delle labbra gli avevano fatto rilevare una divina proporzione.

Quasi mai, negli anni successivi alla morte della moglie, Augusto Pandossa aveva dedicato a una donna tanto riguardo e altrettanto raramente s’era lasciato suggestionare a tal punto da provare immediata eccitazione. Quand’ella lo ebbe preso sottobraccio, egli si sentì deliziosamente torturato da quelle unghie tinte di rosso rubino che, in cerca d’alloggiamento tra il fianco e il rilievo esterno del muscolo dorsale, sembravano ghermire una corporeità fin troppo acquiescente. Ritrovandosi accanto a lei, quale elemento naturale d’una coppia di coniugi, Augusto non aveva potuto fare a meno di smarrirsi nel decolleté improvvisato da un paio di bottoni abbastanza cedevoli della bianca camiciola di seta indossata dalla donna.

Si chiamava Patrizia ed era stata compagna di classe di Augusto fin dai tempi del ginnasio.

L’età non ne aveva affatto alterato la generosa sensualità, che si espandeva virtuosamente in forme vistose ma non troppo, eleganti, scultoree anche nelle imperfezioni causate dal tempo. La gonna nera che scendeva giù da una cintura beige elasticizzata e affibbiata sul basso ventre, giungendo a malapena alle ginocchia, spronava ulteriormente la fantasia erotica del professore, che si tratteneva a fatica dal lasciare che le proprie mani scorressero liberamente sul corpo della donna. E inoltre, l’alienazione patologica dal mondo faceva di Patrizia, agli occhi di Augusto, un personaggio d’una commedia greco-classica che aveva il potere di stare tra gli uomini e gli dei, senza tuttavia doversi commisurare agli uni o agli altri.

Esausto di piacere, Augusto staccò la mano dal braccio di Patrizia e la fece scivolare sul fondo schiena di lei, facendola aderire pienamente alla parte alta dei glutei. Ella si girò di scatto a fissarlo e, stirando verso l’alto la parte sinistra del volto, dall’arcata sopraccigliare all’angolo della bocca, fece una risata altera e di compiacimento il cui suono somigliava a un cenno di vocalizzo d’un soprano. Augusto ne fu rincuorato e insistette a toccarla, rassicurato dalla copertura del cappotto di lei.

<<Vieni da me!>> le disse d’improvviso, non senza un tremito d’ansia.
<<Buon uomo, voi mi affascinate!>> rispose lei in un eloquio drammaticamente disorganizzato. <<Ma l’uomo che m’attende non sa ancora abitare il centro della casa. E anche se so d’essere esistita solo io nell’incognita d’una vita reale o coniugale, resto promessa a quell’uomo. Sono una sacerdotessa del centro della casa.>>.
Bombardato da un’incredibile quantità di stimoli linguistici e figure del significato, Pandossa, che non si sentiva affatto in imbarazzo, sottolineò con arguzia: <<Si dà il caso, mia cara Patrizia, che anch’io abbia il centro della casa e lì t’ho attesa per anni, fin dai tempi del ginnasio.>>.
<<In questo caso la realtà è ideale.>> aggiunse lei con inspiegabile intraprendenza e continuò: << È irremovibile la mia presenza nel mondo uterino dei centri della casa. Lo dico spesso anche a mia figlia: - Non fare molti esami, se poi non esisti come esaminata! -.>>.

Udendo il termine “figlia”, Augusto avvertì una sensazione di scoramento, non riuscendo a conciliare il proprio desiderio con quella maternità smembrata e disperata. Avrebbe rifatto il cammino della seduzione a ritroso, se non fosse stato certo che quel tentativo di conquista era stato animato, fin da principio, da un sentimento unico, quantunque ancora ignoto, ma dirompente, mai provato in tutti gli anni della vedovanza, difficile addirittura ad accettarsi come tale nella banalità di un pomeriggio trascorso al supermercato. Si chiedeva, infatti, con insistenza, se fosse possibile affermare d’amare una donna in quel modo. Egli voleva Patrizia tutta per sé. Non era di certo disposto a dividerla col marito o ad accontentarsi della clandestinità, resa peraltro impossibile dalle condizioni mentali della donna.
<<Il mio intelletto perdeva sangue, quel giorno… La mia bambina aveva deciso di sostenere un altro esame…>> soggiunse lei flebilmente e rabbuiandosi.

Egli le prese il volto tra le mani e le diede un bacio sulla fronte, un bacio che rasserenò Patrizia, la quale appoggiò la testa sulla spalla di lui e si lasciò trascinare in silenzio. Augusto Pandossa toccava il cielo con un dito. Patrizia era la compagna di vita ritrovata: con un violento accesso d’egoismo lodò le virtù della schizofrenia, che considerò uno scudo contro le avversità del mondo esterno. Scosso dalla passione, il professore condusse Patrizia fuori dal supermercato. Ella non protestò, lo seguì affabilmente. Poi, salirono sull’autobus e, in poco meno di mezz’ora, furono sulla soglia dell’appartamento di lui. Egli se ne fece servitore, riservandole ogni premura. La fece accomodare sulla propria poltrona e la invitò ad assumere la posa che giovasse maggiormente al suo benessere. Le chiese se avesse fame e cosa desiderasse, così da prepararle qualcosa di prelibato, ma ella, in risposta, improvvisò uno strano canto il cui ritornello era: “l’uccellino vien cantando”. Egli s’inginocchiò ai suoi piedi e la ascoltò con religiosa devozione.

Alla fine del canto, Augusto le prese le mani e ne contemplò, eccitato e commosso, il rosso rubino delle unghie. Iniziò a baciargliele e ad accarezzarle con la punta della lingua. Con una certa mollezza, ella gliele porse, quasi fossero doni votivi, ma, sporgendosi in avanti, gli fece capire di pretendere un bacio. Si baciarono con delicatezza, lentamente, gustando ogni passaggio di quel contatto. A poco a poco, abbandonarono sul pavimento tutti i vestiti e si accompagnarono vicendevolmente in camera da letto. Patrizia si distese goffamente sul letto, assumendo una posizione perfettamente retta e in linea col piano d’appoggio. Augusto ne rise dolcemente e le si sedette accanto, senza mai smettere di toccarla, senza mai rinunciare a procurarle piacere. Quella donna, si disse, lo avrebbe amato solo nell’accoglierlo dentro di sé. Il suo sguardo, chiaramente infisso al tetto, e la sua immobilità avrebbero potuto trarlo in inganno, ma le vibrazioni del corpo e l’espressione di quel viso rapito dalla letizia e dalla piacevolezza erano limpide testimonianze di attaccamento a quella forma di vita. Le si mise addosso, invitandola a divaricare le gambe. Tentò di catturarne lo sguardo, ma non ottenne successo. Si decise, non senza esitazione, a penetrarla. All’inizio, fu difficile muoversi dentro di lei, senza sentirne le spinte pelviche, cosicché Augusto stentò a goderne. Poco dopo, però, egli fu costretto a fermarsi. Patrizia lo aveva stretto a sé con tale forza e con tale vigore lo esortava a continuare che, sulle prime, Augusto aveva temuto che qualcosa d’ignoto o allucinatorio stesse per portargliela via. Fu un vero e proprio rapporto d’amore, al termine del quale egli si prese cura del suo riposo. La accompagnò in bagno, la lavò e la riportò a letto. Rimboccatele le coperte, le si mise accanto e la vide dormire per tutta la notte.

***

Bisogna ammettere che la maggior parte del nostro desiderio oscilla inelegantemente tra le rinunce e lo spreco, tra le figure della speranza e quelle dell’afflizione; in poche e povere parole, esso è nevrastenico. Lo è, in primo luogo, perché nessuno di noi possiede più lo spirito messianico e la furia dell’eroe cavalleresco a capo dell’avanguardia. In secondo luogo, è così e non può essere altrimenti perché - per dirla con Platone - siamo imitatori delle cose reali: avere un’intuizione su qualcuno che possa farci godere per noi significa iniziare un cammino a ritroso alla ricerca di predicati e nomi protettivi, rifuggendo dagli aggettivi, spesso troppo impertinenti e ambigui. Ciò che per natura è protettivo è, nello stesso tempo, narrabile, si può, per l’appunto, raccontare ad altri e si sa che non c’è alcunché di più confortante e rassicurante quanto il poter dire qualcosa a qualcuno. Non siamo fatti per custodire un segreto, laddove l’intuizione non è altro che un segreto, un che d’inenarrabile, specie quella che ci conduce rapidamente all’eccitazione. 

Noi, di fatto, siamo tutti ‘sposati’, lo siamo anche quando non lo siamo per legge: siamo sposati per genesi e ontologia; è connaturata in noi l’idea di essere bravi e buoni e la presenza, istituzionale o fittizia, di qualcuno che faccia da barriera morale ci aiuta a non morderci troppo spesso le mani per via di tutte interruzioni di cui siamo responsabili, interruzioni che, in realtà, sono delle piccole morti. Sappiamo di non essere d’accordo con noi stessi, ma questo sembra non contare molto.

Dunque, battute su battute e la chat è gremita, più di fantasie che di promesse incrollabili: il collo non s’umetta né le pelvi s’incontrano. È così che ogni bacio e ogni incontro sono rinviati affinché si continui a dire di avere resistito fieramente e santamente. Occhi, glutei, piedi, seni, mani e cosce sono confinati nella distanza e ciò che s’intuisce come piacevole è respinto. Questo preludio d’eros equivoco è solo la metamorfosi dell’attesa che qualcosa accada, di una mano che incontri la nostra, di uno sguardo che si fissi sul nostro viso, di labbra che percorrano i nostri confini.

Eppure, in queste condizioni, siamo piuttosto sicuri di non poter essere mai sicuri. Attendere qualcuno è un po’ come cercare il volto di Dio tra i viandanti di un mercato: passeggiamo guardinghi e ansiosi, sbirciamo di sottecchi forme e colori; percepiamo che è vicino a noi, ma non lo è tanto da essere abbracciato e baciato; siamo coscienti che sia lontano, ma lo è tanto da essere aspettato a lungo. Ogni sfioramento e ogni fortuito toccamento ci fanno sussultare di piacere. Nella casualità del gesto, possiamo ancora appellarci all’inconsapevolezza, perderci ancora nell’alibi dei tanti impegni mondani, nella pretestuosa dichiarazione di sazietà sessuale o nell’alleanza coi tempi dei biblici rinvii.

Prima o poi, pollice e indice si stringeranno sul bottone e l’asola non resisterà allo stesso modo in cui abbiamo fatto noi in precedenza - ne siamo consapevoli, in fondo -. Le parole non morranno più di similitudini e liturgie, scomparendo, schiacciate semplicemente tra la bocca e l’inguine. A quel punto, per poter tentare un’altra fuga dovremmo essere in grado di assegnare all’orgasmo predicati e nomi perfetti, tuttavia verranno fuori solamente aggettivi.

venerdì 20 dicembre 2019


8
Fastidio


Le sue palpebre avevano frequenti e molesti scatti nervosi. Scrollando le spalle e rassegnandosi a sopportare l’inconveniente, Augusto Pandossa passeggiava lungo i corridoi del supermercato, le mani intrecciate dietro la schiena, come fosse sotto il loggiato d’una città barocca mai visitata. Di tanto in tanto, alzava lo sguardo in direzione dei neon che inondavano di luce bianca e impersonale la mercanzia e sporgeva in avanti le labbra con tale sforzo muscolare che la bocca sembrava torcerglisi in manierismi schizoidi. Tornando a osservare i prodotti, pur senza sceglierne alcuno o valutarne i prezzi, grugniva con palese inquietudine, lasciandosi andare a commenti alquanto strambi e che attiravano l’attenzione di chi gli transitava allato, ma confermando a sé stesso che sarebbe stato necessario fare la spesa.

La prima mezz’ora, infatti, era trascorsa nello spiegamento di questi balzani giochi di ruolo e della personalità.

A un certo punto, il professore, con un’ostentazione di calma che non corrispondeva affatto al suo reale stato d’animo, s’appressò ai reparti di pretto interesse femminile.

Di lì a pochi giorni, avrebbe ricevuto la figlia, la quale, oberata di lavoro, lo aveva pregato di approvvigionarla delle risorse necessarie alla permanenza. La prima fatica consisteva nell’acquisto degli assorbenti, sebbene Eleonora gli avesse impartito un’eccellente lezione in merito. Senza perdersi d’animo, andò alla ricerca d’un carrellino e riguadagnò la posizione d’attacco. Studiò il settore grattandosi il mento e s’avvide, con un colpo d’occhio, d’essere accerchiato da donne d’ogni genere e specie con al seguito chiassosi bambini. Quest’ultima visione gli provocò una tale negativa suggestione da alterarne i tratti somatici in amorfi e ridicoli piegamenti delle labbra, degli zigomi e degli occhi. Facendosi violenza, in una sorta di grottesco training autogeno, si chinò e allungò la mano su una scatola di colore viola con su scritto “Provami Nuova Linea Anatomica Assorbenti con ali”.

La afferrò, la fece ruotare davanti al proprio naso con un misurato lavoro di polso e, sempre più perplesso, con un sorrisetto amaro che gli attraversò rapidamente il viso come un’onda d’incalcolabile misurazione, la scaraventò nel carrello. Fece una pausa insignificante. Poi, più risoluto che mai, ne prese altre due confezioni, nell’assurda convinzione che una fosse insufficiente. Tre, a suo modo di vedere, sarebbero bastate appena. Procedette, quindi, ad analizzare la nota della spesa, ma lo fece con marcati sbuffi d’indignazione. Certe operazioni lo imbarazzavano e, per l’appunto, lo indignavano, anche se non avrebbe mai opposto un diniego alla richiesta della figlia.

La seconda fatica non era meno preoccupante della prima, richiedendo delle competenze tecniche: occorreva trovare una crema per il corpo alla vaniglia e alla mirra, ma occorreva anche mantenere i nervi saldi anche perché la nuova ricerca implicava degli spostamenti decisivi e la capacità di farsi largo tra le giovani donne.

L’approccio fu disastroso.

Le scaffalature gli parvero anonime, le creme erano troppo numerose perché se ne potesse selezionare quella adeguata ai bisogni di Eleonora, la quale, tra le altre cose, non si sarebbe accontentata d’una scelta di ripiego. Al povero Pandossa toccò, pertanto, andare su e giù per i corridoi, senza riuscire a cavare il cosiddetto ragno dal buco. La turbolenza dei bambini che gli schiamazzavano attorno, la voce metallica della filodiffusione che promuoveva le offerte, il chiacchiericcio delle famigliole e, più in generale, l’intero corredo umano del supermercato lo confondevano oltremisura. Si chiese più volte perché mai la figlia lo avesse condannato a tale supplizio.

A poco a poco, tra una smorfia d’insofferenza ed un sorriso di rassegnazione, si sciolse dai pregiudizi di genere e decise di chiedere aiuto a una delle esperte clienti che, in quel mondo, si destreggiavano con piroette da acrobata. Si rivolse, a caso, alla prima donna che gli capitò a tiro. Era un’abbondante signora bruna sui quarant’anni che si faceva notare per la formosità dei seni e delle natiche, che sembravano lottare con la resistenza dei tessuti per uscire allo scoperto.

<<Signora, mi perdoni per la prevaricazione! Saprebbe dirmi dove trovare una crema per il corpo alla vaniglia e alla mirra?>>.

La signora guardò subito il professore con una certa ambiguità, propria di chi avrebbe voluto curiosare nelle ragioni di quella richiesta con una bella serie di domande inopportune, anziché dare il suggerimento, tanto che non rispose con prontezza. Tenendo a freno la linguaccia, disse: <<Lei è fortunato. Io uso questa crema da parecchi anni e le assicuro che si tratta di un prodotto eccellente. Idrata la pelle, la profuma, la rende morbida al tatto. È un’ottima scelta. Se poi le interessa il consiglio di una che se ne intende, lei non deve fare altro che applicare la crema dopo una bella doccia calda. L’effetto è dieci volte superiore. Comunque, io sono Maria. Mi scusi, se sono indiscreta, ma lei ha un volto noto. Ecco! Lei è Pandossa, il professor Pandossa, mi perdoni! Il grande scrittore. L’editorialista.>>.

Augusto Pandossa era sul punto di sbottare in una risata grassa e sprezzante, più che altro la covava, ma il senso di istupidimento era tale da impedire qualsiasi altra reazione.

<<Signora>> le disse <<vorrei solo sapere dove si trova questa eccellente crema.>>.

La donna, la cui ambiguità s’era presto trasformata in malizia e sfrontata civetteria, s’affrettò a indicare la collocazione della crema. Pandossa, per contro, non rinunciò a predare la vittima: <<Se mi è concesso, signora, ha letto qualche mio lavoro?>>.
<<No!>> rispose seccamente la signora. <<Il lettore della famiglia è mio marito. Io mi ricordo di lei in un’intervista in tv di parecchi anni fa.>>.
<<Bene!>> sentenziò Pandossa, prima di piantare in asso l’interlocutrice. <<Allora, non esiti a salutare per me suo marito!>>.

Congedandosi energicamente dalla donna, il professore tese tutti i propri sforzi ai successivi acquisti, tra cui spiccava in ordine d’importanza una confezione di salviettine struccanti. Altra bella fatica. Fu così che si rimise di buona lena a ispezionare le scansie del reparto. Trovò subito ogni genere di salviettine, ma di quelle struccanti non c’era traccia. Si fermò, stese bene davanti a sé il foglio della nota ormai stropicciato, fece scorrere l’indice della mano destra sotto i titoletti e si chiese se fosse possibile fare a meno di qualcosa. Frattanto, si rese conto, con la coda dell’occhio, che una donna, da un po’, senza infingimenti né particolari stratagemmi, sbirciava il suo pezzo di carta. Egli, con la solita pronta comicità, glielo mostrò interamente, così da evitarle lo sforzo di tendere il collo. Ella, con determinata sfacciataggine, si tolse gli occhiali, raccolse in una crocchia i lunghi capelli castani con entrambe le mani e si tuffò nell’esame dell’intero elenco. Ultimata la lettura, prese Augusto Pandossa sottobraccio e lo condusse direttamente al prodotto. Al professore piacque ogni momento di quella scenetta da commedia dell’assurdo. Tra le altre cose, aveva riconosciuto quasi immediatamente la protagonista della densa ed estemporanea pièce. Era la madre della ragazza che, sei mesi prima, s’era tolta la vita nell’aula magna dell’università, sul finire della sua relazione al convegno.

***

Accade talora che un’immagine occupi un punto fisso intorno a noi: è un corpo seminudo e dai contorni sfuggenti oppure qualcosa che somigli a un sentiero di montagna. D’un tratto, volgiamo lo sguardo a riconoscerne sporgenze o profondità, secondo che riusciamo ad approssimarci all’uno o all’altro dei due ritratti. Ne siamo parte fin dall’inizio, in qualche modo, ma non sappiamo se questa compresenza sia rischiosa, fiabesca, illusoria o, semplicemente, inutile. Ciò che realmente ci è apparso, di fatto, è un bisogno, inconfessato e vivido, d’incontrare chi, non a caso e non per errore, ha lasciato segni sul ciglio della strada erbosa, mostrando di sé il biancore sfocato delle proprie spalle, senza indugiare lungo il cammino in soste d’ozio e falsi contrattempi.

La speranza spesso è letale perché da essa ci facciamo precedere e, di conseguenza, adombrare. Siamo scalzi e, forse, anche in mutande; la visione ci ha dominati durante un pomeriggio agostano qualunque; fingiamo d’essere impreparati e cantiamo inni all’attesa; questo tuttavia non c’impedisce di correre a colmare le distanze.

Quando finisce il lirismo delle provocazioni, delle suggestioni e dei richiami, le parole si fanno voluttuose e le nostre gambe s’alternano in falcate ampie, irriconoscibili e talentuose. Se il dire non è fare, ci ammaliamo di virtù anodine ed equivoche.

Più oltre, cioè in direzione della lontananza, all’interno d’una baita immersa nella boscaglia, in cui non abbiamo più un nome e neppure una memoria gloriosa e limpida, qualcuno ci aspetta. Disteso sul giaciglio di fortuna improvvisato in tempi ignoti da amanti avventurosi, è ormai privo d’ogni veste, ha gli occhi chiusi e i pugni serrati, quasi volesse stringere a sé l’origine d’un orgasmo. Il nostro ingresso è maldestro; spalanchiamo la porta con furore e facciamo fatica a frenare il lungo e intenso slancio che ci ha condotti fin lì. Per la seconda volta, ci fermiamo: in parte, rifiatiamo; in parte, siamo esterrefatti e increduli, inerti e molli. Se ci avanziamo, ciò avviene in modo involontario, cosicché siamo salvi e, poco dopo, siamo stretti all’altro dall’intreccio di due piedi, che cingono la nostra schiena. Un bacio, dolcissimo e, al tempo stesso, terribile ci rende sovrumani.

L’eros, quello autentico, è invisibile e innominabile.  

venerdì 13 dicembre 2019


7
Fisiologia


Un applauso di cocente approvazione coperse la voce di Pandossa, il quale andò avanti: <<Qualche mese fa, il mio preside mi consigliò di andare da una psicoterapeuta. Io, essendo rispettoso del mio superiore, accettai il consiglio. A tal proposito, però, emerge un grosso problema: se la dottoressa ha un bel culo e delle belle tette, la psicoterapia funziona. E aggiungo: solo per un po’, il tempo della seduta… perché, ad un certo punto, bisogna pagare. E le sedute, com’è noto, hanno un bel costo. Qual è la morale della favola? Uno scrittore che volesse offrirci un resoconto della relazione tra la psicoterapeuta e il paziente Pandossa dovrebbe indagare su tutte le concause nascoste, non potrebbe limitarsi a descrivere il rapporto di causa ed effetto: il preside, il professor Pandossa, la psicoterapeuta e blà, blà, blà. Questo, bisogna dirlo, Joyce lo fa benissimo. Alle otto e quarantacinque del mattino, cioè quando inizio le mie lezioni al liceo, gli allievi mi guardano catatonici, siamo tutti un po’ grinzosi, come lo è il lenzuolo stretto e schiacciato, quando dormiamo bocconi. Allora, mi metto a girare lentamente tra i banchi. Mi serve vigore. È inutile chiedere una disciplina inesistente e che sarebbe utile, diversamente, solo a scrivere altre settecento pagine d’un saggio che pochi esseri umani leggerebbero e che nulla ha da chiedere alla poesia.

Scivolo tra i banchi. Devo stupire i miei allievi per svegliarli; non del tutto però! Non è facile rispondere a tanta responsabilità.

D’un tratto, mi sovviene l’idea determinante.

Passeggiare in aula interpretando e incarnando le norme interpuntorie. Ecco la soluzione! Ma che vuol dire? Il passo lentissimo dovrebbe corrispondere a tre puntini di sospensione. Il passo lento all’asindeto. Può darsi. Il passo lento, breve e circostanziato corrisponde sicuramente al punto e virgola. Che vuol dire passo circostanziato? Un passo osservato in fase di svolgimento. Il passo seguito da una sosta in un punto qualsiasi dell’aula è inequivocabilmente un punto. Il salto a piè pari potrebbe essere altrettanto inequivocabile: due punti. Ma non posso fare il salto. È la congiura delle norme interpuntorie contro di me.
Ho la vescica piena. Devo svuotarla. In aula è impensabile. Il gesto non avrebbe alcunché di interpuntorio. Vado a pisciare tra la sosta del punto ed i due punti.

A quale formula di scrittura corrisponde? Mi serve un esempio dotto. Ci penso, mentre, già in bagno, mi libero del peso. Il voyeurismo di Dante per Beatrice nella Vita Nuova. Sì, non guardatemi come allocchi! Chiamiamo le cose col giusto nome. Dante era un voyeur. D’altronde, c’è un che di fisiologico. Con un bel giro di parole potrei cavarmela. No! Non va proprio. È tutto così spirituale. Citiamo un altro voyeur! Petrarca. Anche qui potrei cavarmela. Ma non se ne parla proprio! Neanche in questo caso. Un mito è pur sempre un mito. Non va toccato. Allora, Boccaccio! Andreuccio da Perugia mi pare bell’e rincoglionito. E poi… se gli studenti lo raccontano in giro? Un po’ di educazione culturale non fa mai male. Vediamo un po’. Tasso, Boiardo, Ariosto. Un Orlando che perde il senno per poi ricuperarlo sulla luna grazie ad Astolfo e a un cavallo alato potrebbe anche costituire la manifestazione di un problema di ordine fisiologico nella scrittura. Sì, ma così s’indebolisce il processo di fascinazione. Lo stesso dicasi per il don Chisciotte! Nobiltà non rima con pisciare né con fisiologia.

La scrittura è un atto creativo; non la si può mica insudiciare in maniera spicciativa. Mi occorre un salto temporale. Non è escluso che la letteratura dell’ottocento e del novecento mi sia più favorevole.

Ho trovato! Kafka. Tutti hanno letto di Gregor Samsa e nessuno può negare che uno scarafaggio sia tanto immondo quanto una scrittura che manifesti una fisiologia impertinente e inopportuna. La pelle del mio pene s’impiglia nella chiusura lampo, proprio mentre sto per mettere a punto l’esempio dotto. Il dolore lancinante spazza via ottocento anni di letteratura. Il mio membro è arrossato. Al rientro in aula sono pallido, ma godo della sensazione di scampato pericolo. Gli studenti mi fissano. Sono in debito con loro!

Ricomincio a passeggiare tra i banchi e medito sempre su qualcosa di fisiologico, qualcosa che renda l’idea dello scampato pericolo! Uno scrittore contemporaneo potrebbe cominciare proprio dall’arrossamento di un membro qualsiasi. Vi ringrazio dell’ascolto! Una buona giornata!>>.

Una poderosa ovazione accolse il professore che s’apprestava a lasciare lo scranno. Gruppi indistinti di uditori gli si avvicinarono per complimentarsi con lui. Egli fece appello a tutta la propria inventiva per evitarli e puntò risoluto l’uscita. Mentre stava per defilarsi, però, s’udì un colpo di pistola che intronò l’intera aula magna. Come fosse attratta da una calamita, la più parte dei presenti s’ammucchiò attorno al corpo esanime della studentessa universitaria che s’era appena tolta la vita con un gesto plateale, infilandosi in bocca la canna di una trentotto e facendo fuoco alla presenza di amici e colleghi. Pandossa s’impietrì. Contemplò la scena imprecando tra sé: <<Gli eventi pubblici non portano mai a nulla di buono!>>. Gli riusciva difficile sopportare lo sdegno alla vista di quella calca di omuncoli curiosi che subissava di sguardi e commenti il cadavere della giovane donna. Poi, premuroso e paterno, con la coda dell’occhio, vide i propri studenti inseguire la folla e si slanciò ad impedire loro di partecipare allo scempio.

Sentì il bisogno di isolarsi a elaborare un angosciante dolore ignoto e che giudicò irragionevole e impertinente. Appena fuori dall’istituto, infatti, si assicurò che i ragazzi riprendessero la via di casa e cercò le strade meno affollate per fare ritorno alla propria, senza opporsi più alle lacrime, che solcarono copiosamente il suo viso.

***

'Adesso, basta!': sarebbe il caso d'incidere questa formula imperativa su tutti i diari segreti degli esseri umani, ma occorrerebbe farlo, quando fossero adolescenti e cominciassero a convincersi d'avere un certo credito nei confronti della natura. Guardare il mare e dichiarare d'amarlo o d'esserne affascinati, senza averne mai domato le onde a bordo d'un'imbarcazione di fortuna e, soprattutto, a largo, presso i grandi banchi, dove scompaiono misure e grandezze protettive, equivale a gloriarsi d’un titolo che non si possiede. Fin da piccoli, siamo indottrinati con malevolenza nell’arte patetica dell’ammirazione e dello scimmiottamento, che altro non è, fuorché una variante della pusillanimità e della pigrizia: si esalta ciò che resta a debita distanza da noi e che, per ciò stesso, appare elevato e nobile.

Dunque, impariamo a menadito interminabili elenchi di parole astratte: amore, amicizia, bellezza, anima et similia; ne abusiamo fino al momento in cui, per difetto di memoria ed esaurimento, cominciamo a ripeterle daccapo perché siamo iniettati di petrarchismo e stilnovismo. Nessuno ci ha mai fatto notare tuttavia che il sublime Petrarca, l’imponente Dante o il raffinato Leopardi, pur qualificandosi come poeti inarrivabili, erano irredimibili voyeur travestiti da sacerdoti della delicatezza. <<Chiare, fresche e dolci acque>> è il racconto di un guardone; <<Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia>> è la spacconata di un uomo che usa il possessivo “mia” a proposito di una donna che non ha mai sfiorata. Intendiamoci! Nessuno, qui, ha l’ardire di revocarne in dubbio la qualità letteraria, talora inarrivabile, talaltra addirittura ‘trascendente’: occorre un po’ di coraggio ermeneutico-esistenziale, se non vogliamo limitarci ad applaudire gli autori delle antologie. Il recanatese era un po’ più onesto degli altri, ma, con Silvia, si lascia spesso andare a posizioni ambigue. Impotenti o pavidi, non avrebbero mai saputo dire a una donna ‘ti voglio’ o, addirittura, ‘voglio scoparti’, cosicché il verbo ‘scopare’ viene esiliato dalla lingua, estromesso come maleficio linguistico e insulto. A scuola, nessuno ci parla di Neruda, Rilke e Celan.

Non saremo mai pronti al naufragio; diversamente, per allontanarci un po’ dalla terraferma abbiamo bisogno, tutt’intorno, di luce e schiamazzo, della stagione estiva e di spiagge affollate. Di notte, nulla può accadere. Allo stesso modo, se una mano s’insinua con forza tra le gambe dell’atro, senza il dovuto preavviso, o corre a stringerne i capelli, la prima reazione configura un insensato e inspiegabile rifiuto.


venerdì 6 dicembre 2019


6
Parola


Impazientito, andò a farsi una doccia calda, con i cui vapori si dilettò per più di venti minuti. Altrettanto comodamente fece colazione. Poi aperse l’armadio della camera da letto, si soffermò a meditare su quale sarebbe stato il parere della moglie e fu certo di dover indossare un bel vestito blu, con camicia bianca e cravatta rossa. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, rise della propria emotività e seguitò a vestirsi. Alle nove e trenta, Augusto Pandossa, ben vestito e profumato, era già sotto casa ad attendere che l’autobus passasse a prelevarlo. Molto di rado, si metteva alla guida della propria autovettura. L’autobus gli permetteva di leggere e meditare, benché gli toccasse farlo in mezzo alla calca. Dopo avere atteso per un quarto d’ora, senza vedere alcun mezzo pubblico, vide arrivare dall’angolo alla sua sinistra un’utilitaria con a bordo dei ragazzi e il cui autista pigiava all’impazzata il clacson. Il suono era diretto proprio a lui. Uno dei ragazzi, infatti, sporgendosi dal finestrino gli urlò allegramente: <<Professore! Salga su! La accompagniamo noi!>>. L’autovettura gli si fermò accanto.

Pandossa, per la seconda volta, quella mattina, si sentì pungere dal batticuore.

I suoi alunni del quinto anno avevano marinato la scuola per seguirlo. I ragazzi gli fecero subito posto sul sedile anteriore ed egli non esitò ad occuparlo né ad assumere lo stile del compagnone. Il ragazzo che stava alla guida ripartì facendo sgommare le ruote. Il professore gli diede il cosiddetto cinque, oltre a qualche consiglio sulla guida sportiva, facendo esplodere nell’abitacolo un entusiasmo frenetico. Un’alunna ancora diciassettenne gli disse: <<Prof, lei è troppo fresco!>>. Il professore ruotò il capo verso di lei, aggrottò comicamente le sopracciglia e la redarguì paternamente: <<Paola, fresco non significa un bel niente! Ragazzi miei, dovete riformare il vostro codice. Poi, c’è da dire che non mi sento fresco. Beh, a pensarci bene, stamani, forse, un po’ fresco sono. Comunque, ne riparleremo in classe. È un bel principio di discussione.>>. Un altro ragazzo ribadì: <<Prof, se ne faccia una ragione! Lei è troppo fresco.>>. Pandossa, che in materia di linguaggio non cedeva neppure una virgola, aggiunse: <<Allora, ragazzi, può anche starmi bene l’aggettivo. Però, intendiamoci almeno sul significato di fresco!>>. Il ragazzo che stava alla guida e che fino a quel momento non aveva partecipato alla discussione, disse: <<Fresco è un tipo ok!>>. Ancora una volta Pandossa, che, in pratica, tra una battuta e l’altra, stava offrendo indirettamente agli studenti una lezione preziosa sul rapporto tra significante e significato intervenne: <<E che tipo sarebbe un tipo ok? Ragazzi, attenzione! Il linguaggio ha delle funzioni precise. Ne abbiamo parlato più volte. Insomma, non potete dire a qualcuno che è un tipo ok o fresco, se poi non siete d’accordo sul significato!>>.

Paola, pur essendo la più giovane del gruppo, appariva come la più attiva e interessata: <<Prof, un tipo fresco è uno che sta dentro le situazioni, che c’ha sempre la risposta pronta perché sa dove mettere le mani; insomma, uno è fresco, se non cade mai dalle nuvole, se non è noioso.>>

Pandossa sembrò soddisfatto, ma gli toccò ammonire la studentessa: <<Paola, adesso ci siamo, ma non ripetere mai più “c’ha”!>>.
La ragazza, imbarazzata, si affrettò a correggere il tiro: <<Mi scusi, prof!>>.
<<Eh, no>> fece il professore <<non devi chiedere scusa a me, ma a te stessa!>>.
<<Io lo sapevo!>> soggiunse Giovanni, l’altro ragazzo seduto accanto a Paola <<Quando uno è fresco è fresco. Punto.>>
Molto premuroso, l’autista, si rivolse al professore cambiando argomento: <<Spero che non sia troppo tardi per il convegno. Siamo arrivati, ma sono già le dieci e dieci.>>.
<<Beata ingenuità!>> lo rassicurò il professore <<Sappi, mio caro, che nessun convegno è mai cominciato in orario! Vedrai! Siamo i primi…o tra i primi.>>.

Parcheggiata l’autovettura, la strana comitiva s’avviò verso l’aula magna dell’università, che, in effetti, era ancora semivuota. Pandossa cercò il cartellino che recasse il suo nome sul banco dei relatori e prese posto da solo, tra carteggi pergamenati ed elegantemente rifiniti e depliant col marchio dell’università in cui si faceva il resoconto pubblicitario dell’evento e si garantivano i crediti formativi agli iscritti. Ne esaminò il contenuto rapidamente per poi allontanare tutto quel materiale dal proprio spazio con un gesto netto della mano. Frattanto, gli si fece incontro il collega ed ex compagno di studi che lo aveva voluto quale relatore. Si abbracciarono, si scambiarono qualche parola di sincero affetto e continuarono a parlottare anche durante i primi interventi degli altri relatori, sotto lo sguardo sospetto del moderatore, che sicuramente non gradiva il brusio di sottofondo. L’intervento di Augusto Pandossa sarebbe stato l’ultimo tra quelli previsti per la mattina. Il professore attese sonnecchiando.

Verso le tredici, il moderatore lo interpellò per dargli la parola. Furono necessari due richiami e una gomitata dell’amico per scuoterlo dal torpore. Vincendo di colpo il sonno, iniziò a parlare, dopo aver strizzato l’occhio ai propri studenti che simularono un’onda di acclamazione in pieno stile da stadio e attirandosi lo sdegno dell’intero uditorio. Pandossa si preoccupò, anzitutto, di non deluderli: <<Joyce! Eccellente scrittore. Erudito, imponente, magistrale. Chiunque voglia definirsi scrittore non può non aver letto Ulisse o, allo stesso modo, Guerra e pace. Gli interventi sulle strutture e sulle sovrastrutture, sulle forme et cetera sono stati illuminanti. Si dice... Ed è bene che si dica. Vorrei capire, tuttavia, cosa illuminano. Mah! A che tutto questo? Mi si chiede di esprimere un parere sulle nuove correnti letterarie. Bene! Anzitutto, vorrei che non fossero delle correnti.>>.

Pandossa, dopo questo esordio, fece una pausa di un paio di minuti, causando non poco disagio. I suoi fans ridacchiarono. Gli altri uditori ne furono visibilmente imbarazzati. Non furono da meno gli accademici. Poi, d’improvviso, ricominciò: <<Se uno è fresco è fresco. Me l’ha detto un mio studente. Io sono un tipo fresco oppure un tipo ok. Questo linguaggio è primitivo, originario, essenziale. Però, per esso bisogna trovare un contesto. Ecco il compito dello scrittore! Joyce ha fatto il suo tempo, collega. Basta! Non se ne può più. Mi dica: lei sarebbe in grado di scrivere un romanzo alla Joyce? Non credo proprio. Non ha la faccia. Allora, lei è del tutto fuori del contesto. Non può impiegare vent’anni della sua vita ad analizzare un autore al quale spera disperatamente di assomigliare. È frustrante. E inoltre, non capisco, credetemi, come si possa violentare a tal punto la mente di uno scrittore, morto da chissà quanti anni e che, di conseguenza, non potrà mai reggere un confronto, a tal punto, dicevo, da fare ipotesi allucinatorie su ciò che lo ha spinto a scrivere in un modo anziché in un altro... per poi produrre un saggio di seicento o settecento pagine di analisi letteraria? Io la chiamerei ideazione suicidaria. Insomma, scriva un bel romanzo! Alla Joyce, se le riesce di farlo. Può anche darsi che lo leggeremo.>>.

Nel frattempo, l’accademico al quale Pandossa aveva rivolto il messaggio era rosso e gonfio di rabbia, sul punto di sbottare in invettive e improperi d’ogni genere. Il pubblico, tra le altre cose, cominciava a divertirsi, pur trattenendosi dall’abbandonarsi alle risa; la qual cosa indispettì oltremisura l’esperto joyceano, secondo il cui punto di vista le nuove correnti letterarie avrebbero dovuto trarre origine da certi classici allo scopo di reinventarli, se non, addirittura, ricostruirli. La sua irritazione giunse al culmine, quando la voce anonima di un allievo universitario, dal fondo dell’aula magna, gridò “bravo” a Pandossa. A quel punto, infatti, l’illustre saggista si alzò furioso e abbandonò tra i fischi il consesso. Dopodiché, Augusto Pandossa, come se nulla fosse accaduto, procedette nella dissertazione, sempre in stile dissacrante e canzonatorio: <<Dal momento che quel pover’uomo ci ha abbandonati, non abbiamo più qualcuno da insultare.>>. Questa volta, dall’uditorio si sollevò una risata uniforme e fragorosa. <<Signori, ci sono delle funzioni del linguaggio che, tuttora, ci rifiutiamo di utilizzare, come se dovessimo rispettare una sorta di comandamento della sacra letteratura. La parola è anzitutto un rumore, un suono indecifrabile e il linguaggio è insufficiente a dirci come stanno le cose, fuorché si sia disposti a credere che c’è una corrispondenza tra la chimica del cervello e quello stesso linguaggio che utilizziamo con la convinzione di dire qualcosa di sensato. Allora, a uno scrittore contemporaneo non resta che volgere lo sguardo a tutti quei codici del tutto privi di sovrastrutture, i codici della necessità, quelli dei giovani ignari del problema del linguaggio, quelli dei bambini e, perché no, quello delle prostitute o dei criminali. Immaginate una prostituta extracomunitaria che dica ad un cliente “Su, vieni, bello porco”.>>.
A queste parole, uno degli ascoltatori, tronfio ed insolente, balzò in piedi e interruppe il relatore: <<Lei è un esperto di prostituzione! Dico bene, professore?>>.

Senza lasciarsi intimorire, Pandossa rispose: <<Io predico bene e razzolo altrettanto bene. Caro signore, se devo parlare dei linguaggi essenziali, dei rumori melodiosi della strada, non posso esimermi dal fare indagini sul campo. Non posso rimproverare un collega per la sua distanza da un contesto reale per poi commettere lo stesso errore. Quindi, per me, frequentare le prostitute o i transessuali o i criminali è un dovere da letterato.>>

***

L'esistenza è fatta di segni e simboli, cioè di elementi che rinviano sempre a qualcos’altro e che, in quanto tali, non rivelano né raccontano alcunché. Al contrario, si può pure ipotizzare che essi siano veri e propri enigmi, prove d’una vicenda divina o arcana assegnateci e imposteci. Purtroppo e per natura, ci riteniamo sempre liberi d'interpretarli e trarne una storia, cosicché l'omissione è trasformata in menzogna, la dimenticanza in miseria morale, il sorriso in forma di spensieratezza. Eppure non c'è causa che corrisponda a un vero e proprio effetto, altrimenti non avremmo beneficiato della relatività di Einstein, della narrativa di Mann e Dostoevskij, della poesia di Rilke. Cosa ci spinge così violentemente verso il giudizio e verso l’oscuramento dell’identità altrui?

In genere, tutti noi dichiariamo di pretendere la verità, specie in amore, in nome del quale siamo pronti vedere luce dappertutto, ma la verità non può che essere un fatto o la sua rappresentazione. E un fatto e la sua rappresentazione si prestano unicamente a essere vissuti, non già a essere riferiti e dedotti. Forse che sorridere al dolore altrui significa disinteresse o impudenza? Forse che non farsi sentire per un determinato periodo equivale a mostrare menefreghismo? Forse che per amare qualcuno è necessario rinunciare a qualsiasi altro corpo?

Il no a queste domande è netto e perentorio, allo stesso modo in cui lo è il sì. Il dominio della possibilità non è passibile di giudizio, non si sottomette alla copula e agli aggettivi. Mentre io scrivo e ‘oso pensare male’ d’una donna che m’abbia detto di no, ella, molto probabilmente, si morde le mani e soffre delle proprie decisioni, tuttavia il suo malessere è tale da non consentirle di dire sì. Viceversa, ella stessa potrebbe pensare male di me perché ho accettato immediatamente il no, mostrandomi arrendevole. Il cane comincerebbe a mordersi la coda e noi, amandoci, finiremmo col non fare incontrare mai le nostre labbra.

Dunque: giunga un inno di gloria a tutti coloro che sono in grado di non parlare e non scrivere perché agiscono, essendo azione ogni loro pensiero! Io non ne sono capace e non posso fare altro che invidiarne la superba natura.


venerdì 29 novembre 2019


5
Meretricio


Due ore dopo, cioè intorno alle due del mattino, Augusto Pandossa s’imbatté in una lunga schiera di prostitute africane, davanti alle quali sfilò leggiadro, squadrandole dalla testa ai piedi e ponendosi in sincero ascolto di tutte le avances che le donne gli facevano per propagandare la propria mercanzia. Passando da una donna all’altra, trovò opportuno annotare le loro espressioni su un taccuino, cosicché ne prese uno dalla tasca interna del cappotto e, mantenendo sempre la stessa andatura, si mise a scrivere, sempre più persuaso che da lì sarebbe nato un romanzo. Il linguaggio, per lui, traeva origine da quelle formule agrammaticali e, nello stesso tempo, cariche di significato, un significato netto, univoco, sostanziale e che non lasciava adito all’incomprensione e ai dubbi. Insomma, non c’era linguaggio più efficace e più vivo o vero di quello della strada, di una strada al confine dell’esistenza convenzionale. <<Su, bello, vieni!>> si disse <<sarebbe un bel titolo>>, ritrovando una voglia di scrivere che, già da tempo, lo aveva abbandonato. Annotati gl’idiomi di particolare rilevanza, si lasciò alle spalle le prostitute africane e proseguì in cerca di qualche transessuale: era il suo genere preferito.

Ne trovò alcuni sui gradini di una chiesa scomunicata e diroccata. Gliene piacque uno in particolare. Lo conosceva. Si trattava di un brasiliano di San Paolo che aveva fatto fortuna sui marciapiedi italiani. Il professore, tutto sommato, era un abitudinario, specie in materia di sessualità. Non si faceva mettere le mani addosso da chicchessia né aveva il piacere di fare nuove scoperte. Pertanto, l’incontro gli fu particolarmente gradito. Era un cliente affezionato. Non aveva affatto intenzione di rientrare a casa insoddisfatto e, nello stesso tempo, non era la serata adatta al rituale della masturbazione. Fu assalito da una certa malizia, nell’avvicinarsi a Pamela, che nonostante una temperatura prossima allo zero, sotto un cappottino nero sbottonato, di finta pelle, indossava uno sgargiante vestitino rosso che non le giungeva oltre gli inguini. Alta, biondastra, più che stravolta dalla chirurgia estetica, che la rendeva turgida e abbondante, Pamela era una vera passionaria, esemplare nella conduzione dei giochi preliminari, esperta nel donare ai clienti ciò che essi desideravano, quand’anche non avessero il coraggio di confessarsi. Ella, vedendo arrivare Pandossa, lo salutò con gioia: <<Ciao, professore. A questa ora tu da me? Bello. Noi divertiamo un po’. Ci sta tuttu u tempu che voi.>>.
<<Pamela>> esordì il cliente <<devi cambiar nome. È troppo commerciale. Che so… Ludovica, Lucrezia…qualcosa di nobile. Tu sei un’artista. Pamela, Samanta o Deborah sono robaccia, nomi da puttana!>>.
<<Io soi puttana, professore. Tu me fai sempre ridere, bello porco!>> disse il transessuale divertito dalle facezie del cliente.
<<Al solito posto?>> incalzò Pandossa con vivo pragmatismo.
<<Seguimi, bello porco!>> insistette Pamela.
<<Ti seguo. Ma evita di chiamarmi bello porco! Non è affatto eccitante né divertente.>> aggiunse non senza risentimento il professore, che si era già posto al seguito del transessuale.

Percorsi all’incirca cento metri lungo il bastione laterale della chiesa, si dileguarono entrambi nell’oscurità d’un cieco declivio, prima della cui conclusione svettava imperioso un palazzo settecentesco. Pamela vi entrò con passo sicuro, svolgendo al buio tutte le operazioni. Invitò il cliente a non accendere la luce e lo guidò verso un piano seminterrato raggiungibile attraverso una modesta rampa di scale che si snodava sulla sinistra. Varcata la soglia dell’appartamento, i due, chiusasi la porta alle spalle, si affrettarono a baciarsi. Pamela non era solita concedersi fino a tal punto ai clienti, ma Pandossa aveva un che di speciale, meritava un’intimità unica, tale da oltrepassare le barriere della merceologia. Pandossa, per converso, considerava quei baci come autentiche prove di apertura a quella sessualità ignota, trasgressiva e rischiosa, che, dalla morte della moglie in poi, aveva segnato gli unici veri momenti di piacere.

Profittando del momento in cui il cliente si accingeva a togliersi i pantaloni, il transessuale si diresse verso la tv, scelse un dvd e lo infilò nel lettore. Poco dopo, comparve sullo schermo una scena orgiastica in cui non si capiva, di fatto, chi avesse parte attiva e chi passiva. Donne con donne. Uomini con uomini. Donne con uomini. E così via in intrecci rocamboleschi. Pandossa lanciò un’occhiataccia allarmata al video per poi rimproverare Pamela: <<Pamela, mi deludi. Dovresti sapere ormai che non tollero queste orrende visioni. Mi conosci da due anni. Grazie a Dio, ho una discreta autonomia di pensiero. È fin troppo sgradevole per me pensare di dover ricorrere alla fantasia altrui per arricchire la mia.>>.

Il transessuale se ne imbarazzò e rispose sommessamente: <<Oh, meo professore, scusame!>>.

Ma era già troppo tardi. Augusto Pandossa, un uomo che, nella vita, non imboccava mai la cosiddetta via di mezzo, stava già per rivestirsi, lasciando Pamela esterrefatta, con un’espressione da tonta, incapace di fare qualsiasi cosa che fosse utile a trattenere il cliente. Il professore, in pochi istanti, era già più che pronto a pagare e filare via. E così fu. Senza indulgere in convenevoli, che gli sembrava fossero alquanto ridicoli e tali da sminuire ciò che per lui era una professione e non un semplice mestiere, consegnò al transessuale circa quaranta euro, cioè una quota ridotta e da lui stesso stimata per l’incompleta prestazione, e s’incamminò alla volta di casa.

Non fece altre soste. Alle tre e trenta, infatti, aveva già indossato il pigiama per abbandonarsi alle mollezze della notte domestica. Accese la tv e la sintonizzò sul primo documentario incontrato nel breve percorso di zapping; dopodiché, affondò il viso nel guanciale e si lasciò prendere dal sonno. Il giorno successivo, in pratica quello già iniziato, sarebbe stato libero dalla scuola. Dunque, non si preoccupò neppure dell’orario. Dormì beatamente per quattr’ore. Alle otto del mattino, infatti, aveva già tra le mani una tazza di caffè, che sorseggiò lentamente davanti alla finestra, lo sguardo totalmente perso nell’estensione della strada che si dispiegava dabbasso e, a quell’ora, brulicava di autovetture e lavoratori frettolosi. Di colpo si distaccò dal vetro, cui sembrava incollato, e s’incupì, avendo ricordato fulmineamente di aver promesso a un collega dell’università di fare da relatore ad un convegno che avrebbe avuto inizio proprio alle dieci di quella mattina.
<<Ecco perché sono libero da scuola! Non ci voleva. Per quale ragione gli ho detto di sì? Non è da me. Che posso inventare? Vediamo un po’.>> borbottò.

Si guardò attorno, come se dal mobilio potesse giungergli un suggerimento e decise che non sarebbe stato il caso di disertare il convegno. In sostanza, pensò, chi lo aveva invitato era persona cara, uno studioso stimabile. Bisognava soccombere, anche se non aveva preparato alcunché: né uno studio né, tanto meno, qualcosa di scritto da mettere agli atti. <<Se mi hanno invitato, basterà loro il mio punto di vista. Il guaio è che non ho un punto di vista sulle correnti letterarie contemporanee. Posso sempre discutere di come vorrei che fossero queste correnti. Bene!>> commentò tra sé.

***


Siamo sempre sul punto di dire di sì allo sconosciuto, a chi possa sorprenderci all’interno d’una stanza buia, disadorna e al centro della quale resteremmo immobili, muti e remissivi, cosicché la nostra incapacità di nominare le parti d’un corpo e il suo possessore, per quella volta, non sarebbe considerata paura. Nell’estraneità e, soprattutto, nella remissività, noi saremmo simili a dei sovrani medievali, impietosi e avidi nell’amplesso, ma certi di avere ricevuto ruolo e opportunità per volontà divina. Lo stare in piedi equivarrebbe infatti all’assidersi sul trono d’una profezia che ci ha insidiati e tormentati a lungo ovverosia una sorta di rivalsa.

Nell’oscurità d’una masseria abbandonata, che diciamo di   aver raggiunta per caso, girando a zonzo in un tardo pomeriggio di noia, ci disponiamo all’ascolto del calpestio, che fino al giorno prima sarebbe stato solo un rumore, ma che adesso è sussurrio eccitante: sembra allora che, tutt’intorno, alberi, vento, uccelli, formiche, mosche e finanche le pietre o la stessa terra entrino dentro di noi con una marcia trionfale orchestrata dai migliori strateghi ateniesi e spartani. Fingiamo di voler capire, ma sappiamo che non è utile farlo. Ci sentiamo tirare per un lembo della nostra maglia, che si stacca dal bacino dov’era stata fissata per compostezza. Dal nostro grembo apprendiamo che qualcuno è con noi, scorre su di noi in turgore e umidore. Continuiamo a resistere all’istinto di reagire perché per tutta la vita non abbiamo preteso altro che questa passività infinita o, diversamente, una certa occasione d’abulia e ci ritroviamo denudati o discinti dalla vita in giù, senza che sia stato necessario inventare le metamorfosi dell’esitazione e del rinvio. È questo il punto in cui afferriamo l’altro per portarlo a noi e misurarne l’appagamento e l’orgasmo. L’uno stretto all’altra, vogliamo solo accertarci che saremo in grado di ripetere pedissequamente ogni gesto per un nuovo appuntamento che, nostro malgrado, non possiamo fissare. Deve accadere e noi possiamo solo sperare.

Desiderarsi e amarsi è un po’ come avere la fede granitica e spossante dei mistici, la visione messianica dei profeti martiri, la penetrante intuizione dei mentori omerici, che, non a caso, erano ciechi.

venerdì 22 novembre 2019

4
Rumore


Quella sera, il professore, le mani sprofondate nelle tasche laterali del cappotto, si addentrò nei sordidi vicoli della città in cerca d’una qualche compagnia che potesse o sottrarlo alla solitudine, una solitudine che, di rado, gli pesava al tal punto da stanarlo da casa, o infondergli la voglia di scrivere qualcosa di narrativo. Era piuttosto perplesso circa lo scopo dell’uscita serale: prostitute, transessuali, barboni, criminali e quant’altro gli offriva la notte erano personaggi che lo interessavano portentosamente, ne esaltavano l’estro, tanto che egli li considerava elementi di decoro e simboli di elevazione d’ogni società. Essi si collocavano al confine della razionalità urbana e garantivano la sussistenza dell’inesauribile e stimolante relazione tra l’uomo e il limite reale.

Per Augusto Pandossa, una prostituta autentica e consapevole aveva una dignità poetica, si esponeva coraggiosamente al rischio che la natura umana comporta perché lo accoglieva interamente, essendo tutt’altro che frivola o lasciva o immorale. Sullo stesso piano erano da collocare gli altri personaggi inquieti ed inquietanti, che costituivano un museo itinerante d’un’arte sempre più ricca e presente.

Il freddo penetrante della notte non lo turbava affatto. Col bavero del cappotto alzato fino al mento, s’avanzava sull’asfalto dissestato delle stradine buie, maleodoranti, ricolme di spazzatura e di cui conosceva a malapena gli sbocchi. Evitando attentamente di farsi investire dalla luce dei lampioni, così da privare la vista di quei dettagli che avrebbero indebolito sicuramente la sua curiosità, camminava rasente i muri, con passo apparentemente molle e svogliato: si trattava d’una falcata d’attesa, sciolta da obiettivi e tappe. In fondo a una delle viuzze, trovò un muro di tufi a sbarramento, sotto il quale una decina di gatti erano impegnati a smembrare i sacchetti della spazzatura. Si appiattò dietro uno stipite sporgente e trovò diletto nel metterli in fuga con un movimento congiunto delle labbra e dei denti che produsse un suono soffocato e, insieme, acuto. Gli animali fuggirono a raggiera, mentre il professore, emettendo sospiri e brontolii di soddisfazione, si addossò alla parete, tirò giù la cerniera dei pantaloni e alleggerì la vescica. Gli si appressò un tizio, ma egli, imperturbabile, finì di fare pipì senza ansia né frenesia. Sull’angolo contro il quale s’era piazzato il professore si proiettò un’ombra fiacca e indefinita dalla quale si sollevò un’ingiunzione. Il destinatario si sarebbe dovuto voltare. Con sorprendente calma, Augusto Pandossa mostrò il volto all’uomo minaccioso, ma non ne fu affatto intimorito. Era un trentenne di altezza media, con radi capelli untuosi, la barbetta sforacchiata e sparsa a chiazze sul volto, puzzava terribilmente di vino ed era paurosamente sdentato. Intimò alla presunta vittima di consegnargli tutto il denaro. Il professore gli sorrise, gli diede una pacca sulla spalla, lo scansò, rimise le mani in tasca e lemme lemme si allontanò.

L’uomo, che, di certo, non era abituato ad avventori così disincantati, esitò un bel po’, grattandosi il capo, prima di decidersi a inseguire il bottino. Un minuto dopo, infatti, afferrò una bottiglia di birra vuota, la ruppe contro il muro tenendola per il collo e si mise alle calcagna del professore, il quale, nonostante le avvisaglie di pericolo, non aveva per niente tentato la fuga. Accelerando il passo, il criminale non faticò ad essergli alle costole per minacciarlo nuovamente. Pandossa, questa volta, arrestò ogni movimento e, prima di girarsi ad affrontare il nemico, rimase per qualche secondo immobile. Di scatto, con un’elegante rotazione in senso orario del piede destro, facendo leva sul tallone del piede sinistro, piantò addosso al tizio uno sguardo inespressivo ed inattaccabile per poi colpirlo sul naso con un pugno. L’aggressore, trasformatosi in vittima, con le mani a giumella, si coperse il naso sanguinante e si appoggiò al vicino muretto per evitare di stramazzare al suolo. Il professore lo osservò con schiacciante indifferenza, senza parlare e senza allontanarsi da lui. Anzi, poco dopo, gli allungò dei fazzoletti affinché potesse tamponare la fuoriuscita del sangue. Quindi, si massaggiò la mano destra e si decise a rivolgere la parola al nemico: <<Birbantello, mi hai fatto male. La mia mano destra è indolenzita. Non ti hanno insegnato che bisogna rispettare gli anziani?>>.
Il tizio, quantunque impegnato a reggersi il naso, stralunato e incredulo, alzò lo sguardo sul professore, ma non riuscì a spiccicare neppure una parola. Pandossa, con la solita agghiacciante disinvoltura, proseguì: <<Suvvia, alzati e fammi vedere in che condizioni sei! Io ho rispetto per il nemico e, di conseguenza, non posso non riconoscerti l’onore delle armi. Per questa volta, ti è andata male. Ti rifarai la prossima volta. Adesso, è il caso che tu mi faccia controllare il naso perché continua a sputare sangue.>>.

<<Senti un po’>> disse il ladruncolo in preda ai capogiri <<perché non vai a farti fottere?>>.
<<Mi sarei fatto fottere con piacere, se tu non mi avessi rotto i coglioni!>> rispose Pandossa beffardo e, guardando l’orologio, aggiunse: <<E sarei ancora in tempo, ma… non posso lasciarti qui a sanguinare. Quindi, non perdiamo altro tempo, altrimenti mi fai agitare sul serio! Su, da bravo, fatti aiutare!>>.

A sentire queste ultime parole, il trentenne, ormai bell’e rimbambito, accettò il braccio offertogli e si mise in piedi. I due si avvicinarono lentamente ad un lampione, sotto il quale il professore infilò nelle narici della propria vittima due piccoli involti strappati da un fazzoletto. Da ultimo, gli strinse la mano, gli lasciò venti euro e se ne andò.

***

Bisogna imparare a vedere la mobilità incessante delle cose, la natura riflettente d’una pozza d’acqua, la direzione d’uno dei tanti rami sporgenti d’un albero di limoni, le forme lasciate dalle impronte sugli specchi, la danza delle somiglianze tra coloro che incontriamo per strada, i modi, figurati o espliciti, con cui gli uomini denunciano o nascondono la propria sofferenza, bisogna imparare tutto questo e tanto altro ancora per potere riconoscere che l’eccitazione d’un corpo è dedicata a noi. In pratica, bisogna imparare a tenersi ai margini di quei giardini dove passeggiano signore oziose e signori impettiti e che si esercitano instancabilmente nell’arte della privazione, spacciandola per virtù.

L’uomo e la donna dabbene o incanagliti, molto probabilmente, esibiscono cinismo e pazienza quali competenze o richiami alla saggezza, raccontano con disinvoltura che la nudità è scontata. A loro dire, coloro che se la concedono e se la scambiano in tutte le maniere possibili sono ingenui, tuttavia coloro che non temono d’essere ingenui sanno far l’amore sui bordi delle antiche fontane, anche in pieno giorno e senza che i curiosi se n’accorgano, perché sono nati per fluttuare tra i mondi dell’assenza. Le loro bocche non potranno mai nominare la morte o la noia, impegnate, come sono, a esplorare piedi, gambe, cosce, pudende, grembi, seni, guance e altre bocche. Per loro, esiste solo il tempo dell’attesa, che giunge sempre in ritardo.

Basterebbe che ci si unisse bestialmente sull’antica pietra, quella dei primi rituali iniziatici, per scoprire che l’unione è fatta per chi sa vendicarsi di sé stesso e della propria presunzione. Oltre il giaciglio, apparentemente ruvido e inospite, ci si ritrova in un sentiero assolato e non si avverte la canicola, allo stesso modo in cui non si sentirebbe il freddo delle sere invernali e solitarie: lo sguardo basso, un sorriso velato, si parlotta, si mugugna, si balbetta qualcosa, si canticchia, raccontando al vento ciò che è stato e ciò che sarà. Quelle mani stringeranno ancora quei glutei: uomini e donne finiranno coll’avere certezza di cose sperate; sulle prime ne saranno meravigliati e non saranno in grado di parlarne neppure con sé stessi, tuttavia, a poco a poco, capiranno che nessun suono tornerà più indietro a punire la loro lingua, come fossero parti del commiato d’una poesia classica

3
Psicoterapia

Nenia di Sara Morghese

Non c’era diceria che lo turbasse a tal punto da indurlo alla violenza.

Di fatto, le dicerie erano parecchie, forse troppe perché il professor Pandossa passasse inosservato sotto la vigile sorveglianza delle autorità preposte, che in questi casi manifestano tutto il proprio zelo.

Una mattina, poco prima dell’inizio delle lezioni, il preside del liceo mandò un bidello in sala consiglio a chiamare il professor Pandossa.
Bidello: <<Professor Pandossa?>>
Pandossa: <<Eccomi!>>
Bidello: <<Professore, mi perdoni! Il preside vuole vederla.>>
Augusto, indifferente alla volontà del preside, rispose con gentile sollecitudine al bidello: <<Lei è una persona talmente cortese e professionale… Cosa vuole farsi perdonare da me? Non è mica colpa sua se il preside le assegna delle seccature.>>. Il bidello, esterrefatto, non comprese il sottile riferimento linguistico alla formula convenzionale de “mi perdoni!” e si limitò a ringraziare con pronta sottomissione, considerando che l’ambasciata fosse compiuta. Gli altri professori presenti dissimularono disinteresse, ma, lentamente, si riunirono in gruppuscoli d’indagine e confronto critico sulle ragioni della convocazione. Pandossa, per contro, attese il suono della campanella e si recò in aula, senza nemmeno prendere in esame la notizia comunicatagli. Alla fine della prima ora, ricomparve sulla soglia il bidello: <<Professore, mi perdoni! Forse, poco fa, mi sono espresso male. Il preside chiede di lei, vuole incontrarla. Se può andare in presidenza…>>. Ancora una volta, l’etica del letterato scrupoloso ebbe la meglio su quella dell’impiegato: <<Certamente. Posso andare in presidenza, ne ho facoltà. Ma è bene chiarire una cosa: sono stato io ad esprimermi male! Intendevo dirle che lei non ha nulla da farsi perdonare. Non occorre che mi dica “mi perdoni!”. Siamo colleghi e ci conosciamo da anni. Siamo entrambi impiegati. Anzi, se lei è d’accordo, fin da ora, possiamo usare il tu tra di noi.>>. I ragazzi, a sentire l’intervento libertario del professore esplosero in un applauso fragoroso, che egli, però, tacitò repentinamente mostrando loro il palmo della mano. Il bidello, invece, apparve subito inebetito. Rimase muto, sulla soglia dell’aula a fissare ora Augusto Pandossa ora i ragazzi. Augusto, avvedutosi dell’imbarazzo del bidello, gli andò incontro tendendogli la mano e lo ringraziò della rinnovata ambasciata. Ma, per la seconda volta, disattese l’ordine del preside. Trascorsa una buona mezz’ora, si sentì bussare alla porta dell’aula. Augusto si alzò e andò ad aprire. Gli si presentò innanzi un tipo basso e paffuto: il preside, che gli si rivolse sbuffando e con la solita voce chioccia.
Preside: <<Augusto, ti ho fatto chiamare tre volte. Possibile che tu sia sempre così intrattabile? Non cambi mai!>>
Pandossa: <<Dammi una buona ragione per cambiare!>>
Preside: (infastidito) <<Non è il momento di perdersi in chiacchiere. Dobbiamo scambiare due paroline. In privato. Possiamo andare in presidenza?>>
Pandossa: (…per il professor Pandossa, l’uso del verbo “potere” era effettivamente vincolato alla possibilità che qualcosa si verificasse, ma non esprimeva un comando né un’esortazione a che la richiesta si realizzasse. Pertanto, si dilettava con dei giochini linguistici che, di solito, irritavano l’interlocutore.) Certo, possiamo andare in presidenza. Ne abbiamo facoltà. Ma, dimmi, preside! “Dobbiamo” hai detto? È un dovere morale?>>
Preside: (…accigliato) <<Sì, è un dovere morale!>>

Il preside s’avviò verso il corridoio dell’antistante presidenza, convinto d’essere seguito dal professore, ma Pandossa, fermamente convinto, al contrario, dell’ambiguità del verbo “potere”, non si mosse. Dopo una decina di passi, il preside si voltò e, vedendo Pandossa immobile sulla soglia della porta, andò su tutte le furie.

Preside: (…urlando) <<Pandossa, cazzo! Seguimi!>>
I ragazzi cominciarono a ridacchiare e confabulare, divertiti.
Pandossa: (…con un sorriso di placidità) <<Non sono il tuo Simon Pietro, ma se mi farai pescatore di uomini…>>.

In presidenza, il preside sembrò rasserenarsi e la conversazione ebbe inizio.
Preside: (…imbarazzato, agitato, con crescente goffaggine, quasi balbettando) <<Beh, caro Augusto, bisogna rimediare ad alcune cosette. Di recente, si raccontano troppe cose sul tuo conto…sarebbe il caso di far luce su… noi ci conosciamo fin dai tempi dell’università… è il caso che la tua reputazione di studioso sia salvaguardata… tu sei il fiore all’occhiello di questo istituto… capisco che, da quando è morta tua moglie, è stato difficile… le tue frequentazioni poi sono un po’… sono persuaso che tu comprenda le ragioni di questo mio intervento…>>
Pandossa: (…rilassato e curioso, allegro) <<Sì, comprendo benissimo le ragioni di questo tuo intervento… in effetti, le mie frequentazioni sono un po’… dalla morte di mia moglie è stato difficile… è stato bello essere il fiore all’occhiello dell’istituto… è il caso che la mia reputazione di studioso sia salvaguardata… d’altronde, noi ci conosciamo fin dai tempi dell’università… è il caso di far luce su… bisogna rimediare ad alcune cosette.>>
Il preside aguzzò lo sguardo, aggrottò le sopracciglia e, reggendosi sui braccioli dello scranno, si sporse in avanti sulla scrivania per carpire le intenzioni di Pandossa, che aveva appena ripetuto con pedissequa precisione il suo evanescente discorso.
Preside: (…basito) <<Mi stai prendendo per il culo?>>
Pandossa: (…sporgendo in avanti il labbro inferiore) <<No!>>
Preside: (…più interdetto che mai) <<Mah… Comunque, la psicologa della scuola è un’eccellente professionista. S’è laureata con pieni voti, ha svolto con brillante profitto il dottorato di ricerca, ha scritto pure dei saggi sul rapporto tra atti linguistici e comportamento… Io penso che sia meritevole di fiducia… lavora con noi da qualche anno…>>
Pandossa: <<Lo penso anch’io.>>
Preside: <<Cosa?>>
Pandossa: <<Che sia meritevole di fiducia! Devo consigliare a qualcuno di andare a trovarla. Hai ragione, bisogna aiutare i giovani a crescere in professionalità.>>
Preside: (…passandosi le mani sul volto come a contenere lo stress) <<Beh, sì. Però, intendevo anche altro. Potresti andare a trovarla tu, così, per scambiare due parole con lei…>>
Pandossa: (…pur essendo consapevole dei propositi del preside) Ma no! Ha qualche anno in più di mia figlia. Ti ringrazio di cuore dell’interessamento, ma, ormai, alla mia età, sono fin troppo abituato a stare da solo, non voglio frequentare una donna, non è il caso…>>
Preside: (…rosso di vergogna) <<Intendevo dire che potresti frequentarla per le sue competenze; a nessuno di noi fa male un colloquio con una psicologa… Non credi?>>
Pandossa: (…rimettendosi in piedi, sul punto di lasciare la stanza) <<Fissami un appuntamento! Ma non prima delle diciotto! Adesso, torno in aula!>>
Il preside, a bocca aperta, istupidito, seguì con lo sguardo Augusto Pandossa, mentre questi si dileguava fischiettando.

Nello studio di psicoterapia.

Psicoterapeuta: <<Buongiorno, professor Pandossa. Come sta?>>
Pandossa: <<Piuttosto bene. Avrei preferito restare a casa, sul divano, a guardare un film, gustando i prelibati cioccolatini regalatimi da mia figlia, ma mi sono adattato volentieri alla novità.>>
Psicoterapeuta: <<Cosa l’ha indotta a venire da me, dal momento che preferiva gustare i cioccolatini di sua figlia?>>
Pandossa: <<Il preside.>>
Psicoterapeuta: <<Lei è qui per il preside?>>
Pandossa: <<Sì. Ma questo lo sa anche lei. È stato lui a fissare l’appuntamento. Mi rendo conto che il protocollo terapeutico prevede un certo approccio, quindi, se è necessario, andiamo avanti così!>>
Psicoterapeuta: <<Quindi, lei ha fatto cosa gradita al preside venendo qui. Come la fa sentire questo gesto nei confronti del preside?>>
Pandossa: <<Un uomo molto caritatevole! Il preside è cardiopatico ed io ho voluto accontentarlo.>>
Psicoterapeuta: <<Le sembra un bel gesto?>>
Pandossa: <<No. Non è un bel gesto. È  solo un’opera di carità. L’aggettivo da lei usato è improprio.>>
Psicoterapeuta: <<Quindi, la sua presenza qui è un’opera di carità e lei avrebbe preferito stare a casa a gustare i cioccolatini che le ha regalato sua figlia.>>
Pandossa: <<Esatto! Mi spieghi una cosa! Presumo che la riformulazione faccia parte del metodo, ma, mi creda, è molto noiosa! Potremmo cimentarci in una conversazione più dinamica. Tutto sommato, oltre a essere una psicologa e un paziente, siamo anche colleghi con un patrimonio culturale.>>
Psicoterapeuta: <<Com’è questa noia cui ha fatto riferimento? Potrebbe descrivermela?

La psicoterapeuta, all’oscuro del guaio linguistico in cui s’era cacciata, aveva posto una domanda di cui s’era subito compiaciuta, principalmente per aver messo in relazione il colloquio e lo stato d’animo d’un paziente assai complesso. Tuttavia, Augusto Pandossa, per il quale la domanda “potrebbe descrivermela?” significava chiaramente che era possibile descrivere la noia, allo stesso modo in cui non era possibile farlo, andò in sollucheri, tenendo conto anche del fatto che la sua interlocutrice aveva usato il condizionale, aggravando la tensione ipotetica del discorso.
Pandossa: <<Sì. Potrei descrivergliela. Ne ho facoltà>>
La psicoterapeuta si dispose, quindi, con enfasi, ad accogliere il cosiddetto talking-out del professore, il quale, invece, dopo aver dato il proprio assenso, appollaiato comodamente sul divanetto, cominciò, noncurante di chi gli stava innanzi, a osservare con interesse quanto gli stava intorno: mobilio, suppellettili e quadri. La psicoterapeuta, facendo fatica a seguirlo, s’affrettò a indagare sugli espedienti linguistici del “qui ed ora”, nel rispetto scientifico dell’approccio, laddove avrebbe voluto – e non lo negò a sé stessa – intrattenersi a chiacchierare col collega senza schemi d’interpretazione comportamentale.
Psicoterapeuta: <<C’è qualcosa che attira la sua attenzione?>>
Pandossa: <<Sì.>>
Il professore aveva l’abitudine di non arricchire le proprie risposte con ciò che non era esplicitamente richiesto; dunque, alla domanda “C’è qualcosa che attira la sua attenzione?” era sufficiente rispondere o con un sì o con un no. Bisognava porgli un’altra domanda per entrare nel suo campo percettivo, essendo poi disposti ad ammettere che la successiva risposta appartenesse autenticamente al campo percettivo.
Psicoterapeuta: <<Quale?>>
Pandossa: <<La bruttezza dei quadri appesi alle pareti.>>
Psicoterapeuta: (…inghiottendo a vuoto per lo sconforto, come volesse trattenere la reazione) <<Le giunge dunque una sensazione di bruttezza… E se le dico che questi quadri sono dei lavori di alcuni miei pazienti affetti da gravi psicopatologie, lei cosa pensa di questa bruttezza?>>
Pandossa: <<Penso che sia una bruttezza molto brutta. La storia ci ha donato artisti preziosi affetti da gravi psicopatologie, ma la malattia mentale non ha impedito loro di produrre dei capolavori, anzi, talora è stata fonte d’arricchimento; col che non intendo dire che la malattia mentale è una risorsa dell’arte, sia chiaro! Ho solo ribattuto alla sua affermazione. Evidentemente, questi individui con schizofrenia non sono degli artisti. Vien fatto di pensare che questi lavori siano l’esito di attività riabilitative. Nulla da eccepire. Il guaio è che lei li espone con orgoglio. Allora, c’è da chiedersi o quale sia il suo criterio di bellezza artistica o perché lei, seppure così giovane e competente, ceda al vezzo denigratorio di mettere in mostra quanto è prodotto da un ingegno limitato. È una strana posizione quella dell’essere umano che offre al pubblico gli errori altrui; forse si tratta di un tentativo di colmare dei vuoti di personalità o di contrastare un qualche complesso d’inferiorità. Di certo, non sono la persona idonea a formulare questi giudizi. La mia è una banale opinione. Pensi a tutti quegli accademici che imbrattano centinaia di pagine per informare la comunità scientifica delle errate interpretazioni degli altri pensatori, critici o filosofi, quello che siano! Potrebbero, molto più sanamente, impiegare la propria verve scritturale nella stesura di vere opere, anziché dire che Tizio o Caio non hanno ben valutato la poesia di Sempronio. Allo stesso modo, ma su un piano molto più basso, si collocano tutte quelle pubblicazioni di stupidari e frasari fatte da sedicenti scrittori. Insomma, mi dolgo di dover scoprire che anche lei si compiace di questo insano costume. Forse, ho parlato troppo a lungo.>>
Psicoterapeuta: (…un po’ nervosa, ma con esemplare contegno) <<Nient’affatto. L’ho ascoltata con interesse. La bruttezza dei quadri dei miei pazienti la rimanda al cattivo costume dei critici letterari, costume che poi sarebbe anche il mio…>>
Pandossa: <<Ci risiamo! Di nuovo questa specie di riformulazione! La diverte tanto oppure è proprio necessario questo metodo?>>
Psicoterapeuta: <<Entrambe le cose.>>
Pandossa: <<Mi fa piacere che almeno lei riesca a divertirsi.>>
Psicoterapeuta: <<Forse perché lei è un uomo caritatevole, quindi le sta anche a cuore il mio stato d’animo?>>
Pandossa: <<No. Mentirei, se le dicessi che mi sta a cuore il suo stato d’animo. E inoltre non ho mai detto d’essere un uomo caritatevole. Fare qualcosa di caritatevole non vuol dire essere uomini caritatevoli.>>
Psicoterapeuta: <<Bene! Ci limitiamo a dire che lei ha fatto qualcosa di caritatevole nei confronti del preside, ma che non le importa niente di me.>>
Pandossa: <<Ora c’è una buona approssimazione alla verità.>>
Psicoterapeuta: <<Perché parla di approssimazione? Manca qualcosa alla verità?>>
Pandossa: <<Manca sempre qualcosa alla verità. Non gliela posso rivelare io la verità perché non la conosco. Se lei ne sa qualcosa, m’informi pure!>>
Psicoterapeuta: <<La sua unica verità mi pare sia il benessere…Se lei qui sta bene, è giusto che ci rimanga. Altrimenti, è giusto che vada via.>>
Pandossa: <<Io, qui, sto benissimo. Lei ha delle gambe e dei seni meravigliosi…Sarei uno stupido se non godessi della contemplazione. Ecco! Questa potrebbe essere un’espressione della verità della mia presenza qui. Ma alla verità manca qualcosa. Io sono più grande di lei di circa venticinque anni e ho una figlia che ha qualche anno in meno di lei. La contemplazione oscilla, di conseguenza, tra un’opera di Dalì e una di Carrà.>>
Psicoterapeuta: <<Sono certa che questo nostro primo incontro sia stato proficuo…>>
Il professore: (…interrompendo il flusso emotivo della psicoterapeuta) <<Lo penso anch’io. Se avrò bisogno di lei, la ricontatterò.>>

Scosso dall’eccitazione, intrepido, il professore non vedeva l’ora di rientrare a casa per lasciarsi andare al solito rituale della masturbazione.

***

Dai più si dice che un certo gusto erotico è dato anche nell’attesa e nella privazione, ma l’attesa e la privazione sono unicamente delle negazioni dell’essere o, diversamente, modi del rinvio, della necessità imponente e, talora, dell’incapacità di amare.


L’ombra delle querce secolari ha garantito ai poeti, nel tempo, solo un ristoro apparente e amaro, permettendo loro di associare il disagio con le metafore della natura, che giovano alla nascita di corpi letterari antologici. Colui o colei che, girando per casa, possono scorgere semichiusa la porta del bagno e, attraverso la porzione di luce, sono in grado d’intravedere la metà d’un corpo accovacciato sul bidè, senz’alcuna sofferta genitura poetica, diventano abili nel raccontare molto di più di quanto farebbe un maestro del dolce stil novo. Egli o ella, accostandosi all’immagine domestica, è vero, spiano ciò che non hanno bisogno di spiare perché, in quel momento, lo possiedono, quand’anche quel corpo appartenga ad altri per costume, tuttavia trovano maggiore gratificazione nell’atto furtivo che nella richiesta, poiché sanno, tramite lo sguardo e in quest’unico ambiguo modo, di sconfiggere la privazione residua, dominando l’attesa.

Ogni adunanza pubblica è un’occasione pura per indagare al fine di scoprire chi tra i presenti sa giovarsi dei fuochi fatui, quelli che illuminano sempre le stanze buie e, soprattutto, nascoste, e chi, al contrario, resta inchiodato ai gruppi di discussione amena. L’amante perfetto, in queste circostanze, passeggia tra coloro che parlottano e cerca una compagna di fuga, facendosi beffe dei relatori e d’ogni buona maniera: è insidioso, diabolico, scrupoloso, cauto, coraggioso, mai troppo sorridente e sempre pronto alla prematura perdita. E sia chiaro: le differenze di genere non hanno alcun senso!

Alla fine della passeggiata, ella sarà distesa, nuda, sulle gambe di lui, che sulle sue curve riscriverà la vera storia sacra.